Matsumoto ruotava lo Jerez nel calice. Abbandonato sul faldistoro di pelle nera, guardava fuori l’immensa curva di Ammit nella cornice scolpita di un rosone del fondaco. Portò lo sherry secco alle labbra, la nausea gli mescolò le budella, schioccò le dita al cameriere-roboto e lasciò il bicchiere pieno sul vassoio d’argento. L’automa gli offrì il piatto coi Capezzoli di Venere, lui rabbrividì di sudor freddo, affondò la faccia livida nel fazzoletto di seta.
Il domestico pigolò mortificato.
«Non è colpa del cibo o del vino», Matsumoto lo consolò; si alzò dalla poltrona, gli girava la testa, l’offuscava l’ocra intenso del pianeta sottostante. L’ombra minuscola della stazione orbitale rotolava all’equatore dell’immensa sfera arancio; la luce riflessa sui cristalli di Wateford, sulle ceramiche di Makoto Yamamoto, incendiava lo studiolo di quel giallo abbacinante. Ammit tremolava di corse eterne di dune come per il solletico del periplo del fondaco.
«Siamo un insetto su una schiena di donna», Matsumoto fantasticò. L’idea di tutto un mondo di carne daccapo gli rivoltò gli intestini; quel pensiero lo assillava da qualche giorno:
«Ammettiamolo», deglutì, «quel pianeta mi dà la nausea. Che cosa mi succede?»
Barcollò fin la consolle della vetriata, scorse sul menù fino a Été di Poussin: un maggese luminoso sotto un cielo turchino, ragazze d’arcadia sotto l’ombra di una quercia, un castello in lontananza, un orizzonte di cime azzurre, coprirono nel finestrone la veduta dello spazio.
Matsumoto si asciugò la fronte, tornò a stravaccarsi con i piedi sullo scrittoio.
Bussarono.
Il roboto spalancò l’uscio bianco a Chaudhary che scattò sull’attenti; pallida, gli occhi neri le ardevano di un terribile fuoco:
«Ne abbiamo trovato un altro, signore.»
Lui, esterrefatto, sprofondò nella poltrona; «un altro?!…», balbettò.
L’ufficiale, rigida sulla soglia, guardò circospetta al viavai nel corridoio; la folla del personale e forestieri del fondaco che sciamavano ai loro affari nei padiglioni di borsa. Annuì. Lui la invitò ad accomodarsi nel salottino, il roboto chiuse la porta, le servì del liquore; Chaudhary prese il bicchiere con le mani che le tremavano, le dita dei guanti candidi erano sozze di gocce nere. Scolò tutto d’un fiato.
«Dov’è questa volta?»
«Nelle stive, signore.»
«Spegniti, tu», bofonchiò Matsumoto: l’automa squittiva «un istante, signore»; si attardava a sparecchiare la scrivania, raccogliere le bottiglie in ordine nel frigobar. Lui frugò rabbioso il telecomando fra i compact e i tablet ammucchiati sul piano, schiacciò sul tasto met; lo lanciò contro la fronte del domestico meccanico già inerte sul pavimento fra pirofile in frantumi. Il marzapane dei cioccolatini impiastricciò un Anadöl.
«È solo un automa», disse Chaudhary raccogliendo il telecomando. Lui le notò le ghette bianche dell’uniforme arrossate dal sangue di questo nuovo olocausto; il secondo omicidio nell’arco di sei giorni.
«È solo una stazione mercantile!», strappò le uose sporche dagli stivali dell’ufficiale, «Se l’equipaggio sapesse!… Abbiamo a bordo cinque nobili di logo! Un disastro!»
«Magari la prossima volta toccherà a lorsignorie.», Chaudhary sputò.
Matsumoto la afferrò per il colletto, le gualcì le mostrine, affondò l’unghie curate e dipinte nei marchi degli sponsor cuciti sul farsetto:
«A voi, Guardiamarina, non converrebbe; di sicuro non riuscireste a sopravvivere alle loro eccellenze.»
La ragazza lo guardò ammutolita: il bel viso era una maschera di terracotta spaccata a metà fra stupore e indignazione. Lui le si specchiò nelle pupille: schiumava non rasato con la zazzera scomposta. La lasciò:
«Perdonatemi, Chaudhary», disse mite, «È che temo di non sapere come gestire questi incidenti»; quell’ultimo vocabolo gli si incollò sul palato, gli uscì in un falsetto.
Lei cambiò la scena arcadica del finestrone con una pianta interattiva del fondaco:
«Vorrete vedere dove l’abbiamo trovato, signore: vi ci accompagno. Non abbiamo toccato nulla, vi avverto, però…», gli porse dal cinturone una manciata di capsule; lui storse la bocca, gli antiemetici gli schifavano, «è peggio dell’altro.»
Matsumoto si raddrizzò la parrucca, si annodò lo scapolare e allacciò gli alamari, si imbellettò. Le pillole sfrigolarono nel calice dello sherry.
Lui non bevve, spalancò l’uscio bianco: «vi seguo, Guardiamarina.»
Si sedettero nel vettore interfondaco, la cabina accelerò nel condotto per l’anello che dalla plancia scendeva nei magazzini. L’odiosa luce ocra del pianeta incendiava l’abitacolo e il tunnel.
Matsumoto si premette il fazzoletto alla bocca: vedere anche Chaudhary con la fronte imperlata, che soffriva la stretta del bavero dell’uniforme, in parte lo consolava del malessere e l’imbarazzo.
«Shiva, qui si soffoca!», imprecò l’ufficiale; si attaccò all’interfono, sputò insulti ed ordini nel microfono agli addetti alla manutenzione d’ogni livello che attraversavano.
Lui levò lo sguardo alla carola di ninfe che, in un cruscotto d’ottone, abbracciavano gli strumenti che misuravano velocità, temperatura e pressione; e la sirena, scolpita in un grido muto, cui torcere la coda in caso di emergenza. Tutto in regola, lì:
«Non sbraitate, Guardiamarina: gli indicatori dicono che…»
Il modulo trasportatore si arrestò all’improvviso, i led dei comandi si spensero con un gemito.
«E adesso che cosa?!…»
Matsumoto saltò su dal sedile, pestò i piedi sulle lamiere del pavimento, inorridì della sensazione di leggerezza che cresceva più il fondaco s’abbuiava. Privazione di peso. Vide Chaudhary galleggiare nell’aria che nuotava fino al quadro indicatore, tirò la pinna di lega dorata della sirena ma l’allarme non funzionò:
«Una perdita di energia!»
Sul guscio trasparente della cabina, inondata dai raggi gialli di Ammit, si specchiava il vasto ventre della stazione tutt’a un tratto freddo e inerte e silenzioso. L’aria si fece rarefatta e stantia, le giunture ed i cristalli dell’abitacolo scricchiolarono nella morsa del gelo.
Matsumoto impietrì, si rannicchiò nel sedile; guardava a Chaudhary che picchiava sul cruscotto e la vista gli si offuscava dalla paura:
«Siamo morti!», balbettava, «Siamo morti!»
«State calmo», ringhiò l’ufficiale, «è accaduto altre volte in questi giorni.»
«Non a me.»
«Dormivate, signore. La notte dell’omicidio. Forse abbiamo un guasto che non riusciamo a localizzare; forse…»
Ammutolirono sbigottiti.
Matsumoto strizzò gli occhi appannati: intuì per un istante, nelle pupille di lei, il medesimo sospetto di sabotaggio, la medesima associazione di idee: blackout e delitto.
Il puzzo viepiù chimico dell’aria, e la stretta alle viscere, lo rituffò nel terrore sordo e ottuso:
«Quanto dura di solito?»
«Minuti, maledetta baracca!»
La rotaia del vettore di trasporto, che correva tutt’attorno alla stazione, scintillò di un lampo oscuro e sinistro che riaccese gli strumenti e le luci. Gli oblò dell’equipaggio e la plancia, gli hangar, l’ospedale e foresteria s’illuminarono da un capo all’altro del fondaco come del riverbero di un sole nero ed occulto. Un’impossibile folata fredda da fuori investì la cabina, fischiò cupa attraverso spifferi che non avrebbero dovuto esserci.
I sistemi di gravità tornarono funzionanti, Chaudhary cadde in piedi sul pavimento; i led delle naiadi si riaccesero di cifre verdi, la sirena gridò l’allarme, si spense.
«Ci siamo, signore», nicchiò l’ufficiale, tornò composta sul suo sedile; un’okay dall’interfono ed il modulo ripartì.
Matsumoto sudava ancora copiosamente, si sfregava il panno fradicio pervinca dietro i riccioli della parrucca e la cascata della cravatta.
Restò per il tragitto in ostinato silenzio: nelle budella gli scoppiava un agghiacciato «perché»; ora il dovere gli imponeva risposte che i suoi nervi non volevano conoscere.
Chaudhary taceva, gli stornava lo sguardo, non smetteva di fissare il pianeta: quella verruca color ocra della Galassia che entrambi conoscevano fin la nausea.
Lui le sbirciò quei guanti candidi macchiati d’omicidio e di polvere d’ottone: vide che le mani le tremavano ancora.
Il vettore si fermò con uno strappo, una ninfa percosse un campanello; la portiera pressurizzata si aprì sulle stive.
In fondo ad uno spoglio corridoio rivestito d’assi chiare di quercia il fante Srivas, imbracciato il moschetto, montava la guardia alla soglia di un magazzino.
Matsumoto alzò la mano su una spalla del ragazzone, cui le piume del suo tricorno carezzavano solo il costato: «riposo, soldato»; Chaudhary fece strada. A cenni gli intese di fare attenzione nel camminare.
Lui raccapricciò della pozzanghera scarlatta che si allargava sotto l’uscio di legno, l’ufficiale spalancò col passepartout.
Un inserviente mutilato della sinistra e la gamba destra giaceva al suolo in un disastro di sangue. Le membra amputate, bruciate all’estremità, erano ammucchiate poco discosto il cadavere spolpate da morsi che sembravano umani. Lo scempio era inscritto in un pentacolo inciso sul pavimento con un utensile termico; l’alluce e l’anulare recisi, con stoppini infilzati fra le unghie e la pelle, servivano da candele per due punte di quella stella.
Il fetore di viscere ammorbava la stanza, un sentore di resine permaneva nell’aria.
Matsumoto vuotò lo stomaco su un battiscopa.
Chaudhary lo accompagnò nel corridoio, lui, con la bocca ancora impastata per i conati, ordinò d’infilare quell’orrore in un sacco e di espellerlo subito nel vuoto dello spazio. Vide Srivas impallidire, posare l’arma sull’assito del corridoio; munirsi di spugne e di cellophane e scopa e livido e esitante entrare nel magazzino.
Matsumoto si rilasciò senza forze su uno sgabello. Lì, grazie a Zeiss, nel profondo delle stive, non si aprivano finestre sull’infinito, non filtrava l’arancione di Ammit a cuocergli le cervella, lo stomaco ed il cuore; era certo che in quell’istante ne sarebbe crepato:
«L’altra volta…», rantolò.
«Vi avvertii, signore, che era peggio: l’altra volta l’assassino si è limitato ad amputare il piede destro, e i segni dei morsi non erano così evidenti. Per quello che ne capisco di ferite», Chaudhary inghiottì, «la morte è sopraggiunta per la perdita di sangue… capite? L’ha smembrato e divorato da vivo.»
Matsumoto senti il disgusto raschiargli il fondo degli intestini:
«Trovatemi questo sadico, schifoso malato!», schiumò.
Farben sciacquò le dita nell’acqua tiepida del bacile, volute e grumi bruni galleggiarono in superficie, le frattaglie si mescolarono con i petali di rose bianche. Affidò la veste sozza al domestico-roboto, gettò la mannaia nel lavabo di marmo: la lama a calore si freddava poco a poco, appannava il travertino di un alone grigiastro.
L’automa operò solerte la lavatrice, poi slacciò la sottoveste del padrone dove i bottoni tiravano sul ventre gonfio.
Farben ruttò.
Quel sapore dolciastro e disgustoso gli tornò nella bocca: e avvampò dalle viscere all’ipofisi, come e di più per gli olocausti precedenti, di una fiamma inconoscibile gelata e corroborante. Il pene in un istante gli venne turgido, e i piccoli cristalli della stanza, le fialette di profumo e le gocciole del lampadario, croccolarono incrinati in un lampo di luce nera.
Il domestico gli piegò la sottoveste sul letto, lui si immerse nella tinozza bollente nella schiuma profumata nelle spezie e nei sali; sfiorò la consolle incastonata alla vasca e la camera svanì nel Todestriumph di Bruegel. Dall’esercito di scheletri di cartapecora che marciavano con la falce sui potenti del mondo si sporgeva l’obbediente roboto con la spazzola di fil di ferro per grattagli la schiena.
Dietro l’ologramma di uno scudo di cavaliere, Farben si accorse del proprio volto riflesso nello specchio della toilette fatto a pezzi dal lampo.
La faccia gli assomigliava nei minuti particolari, salvo un insano colorito cinereo e uno sguardo più profondo, più maligno e più buio.
Lui la salutò con un volteggio della mano, l’acqua profumata svaporò sullo spettro.
«Mi compiaccio, marchese», l’immagine guaiolò, «il rituale procede, funziona: a migliaia di chilometri di distanza e con tutti questi ordigni che interferiscono. Siete molto dotato, fate grandi progressi.»
«Vi ringrazio, signore, e credetemi: imparerete ad apprezzare la tecnologia.»
«Non v’è dubbio che saremo ricettacoli reciproci.»
«Se voi non mi mancherete, io neppure vi verrò meno.»
«Siete quasi a metà del percorso al potere: operate qualche semplice incantesimo», la faccia adulò, «tentate un assaggio delle vostre facoltà; godete di affrancarvi dall’umano e la natura.»
«Bagatelle, signore, bagatelle! Dall’assaggio delle carni di un mio simile», Farben scherzò, «sono ormai del tutto sciolto dai vincoli cui dite. Indietro non si torna»; e sputò con raccapriccio, nell’acqua della tinozza, un frammento di cartilagine rimastogli fra i denti.
«Il cammino sul pentacolo è in un’unica direzione. Gloriosa. Voltate le spalle alla baldracca preistorica che ci tiene in schiavitù dall’origine delle specie!»
«L’ho fatto.»
«È così.»
«E il vostro, di cammino?»
«Con voi, fra le stelle. Lontano finalmente da questa tomba di sabbia.»
«Se voi non mi tradirete, io neppure vi mancherò»; Farben posò il palmo sullo specchio, le schegge gli spillarono un rivolo di sangue.
Lo spettro svanì.
Lui disintegrò ciò che restava del vetro con un crudo pensiero del ribrezzo che gli ispirava:
«Semplici incantesimi. Il mondo è capovolto.»
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