Pochi giorni fa Elena Torresani ci ha scritto su facebook: dopo aver lavorato per tanti anni, rinunciando al sogno di scrivere, dopo aver provato a lottare per il lavoro, ora si ritrova in cassa integrazione. E si è ricostruita una vita: ha appena pubblicato un libro, ed è solo l’inizio.
Sono cassintegrata da quattro giorni e sono tra i fortunati che possono almeno contare su un ammortizzatore sociale. L’azienda per la quale lavoravo sta chiudendo per non pagare i debiti (compresi quelli verso i dipendenti) e ha già riaperto con una nuova ragione sociale. I miei colleghi hanno accettato di lavorare gratis ma io non voluto accettare. Quando ho proposto lo sciopero nessuno mi ha seguito. Avevano tutti paura, non so di cosa. La legge permette al datore di lavoro di non pagare gli stipendi a tempo indeterminato. Sono riuscita a tenere i miei colleghi due ore senza lavorare una delle mattine in cui ho dato di matto, e in quelle sole due ore di inattività siamo riusciti ad ottenere il pagamento di una mensilità arretrata. Ero l’assistente personale del capo, conoscevo perfettamente i suoi punti deboli e le sue pseudo-strategie. Non mi ha ascoltato praticamente nessuno, e io ho scelto di staccarmi da loro e da quello che loro rappresentavano. Dopo quella mattina, i sindacati hanno detto che forse lo sciopero poteva servire. Forse.
La vita talvolta ti porta a desiderare moltissimo qualcosa che avevi giudicato prima il peggio che ti potesse capitare. Ho sempre creduto che la cassa integrazione fosse l’anticamera del fallimento e della disperazione, un tracollo personale e sociale da scongiurare a qualsiasi prezzo. Crescere negli anni ’80 ha significato per me scegliere di essere un perito aziendale rinunciando al liceo classico, sognare di diventare una manager anziché assecondare le mie passioni letterarie. L’imperativo era fare più soldi possibile, diventare produttivi presto e mantenere un curriculum testosteronico. Ho lavorato come un asino per tutta la vita, facendo spesso due lavori e non smettendo mai di studiare.
Nel mio caso “cassa integrazione” significa una situazione economica tragica anche a causa degli stipendi che il mio datore di lavoro si è preso il lusso di non pagare ai suoi dipendenti (potendolo fare per legge, tra l’altro). Ma “cassa integrazione” oltre a “pane e cipolle” significa anche, per me, una libertà tanto attesa. Prima lavoravo 10 ore al giorno in un’azienda senza futuro, senza scampo o gratificazioni, passando gran parte del tempo libero a lavorare per la mia agenzia di comunicazione, per i miei libri, per i miei progetti. Sono arrivata a stare davanti al computer 18 ore al giorno per più di un anno, perché un’azienda che stava fallendo aveva deciso di non concedermi il part-time. Oggi davanti al computer ci sto solo sei ore, e il mio giorno lo passo scrivendo, andando a fare passeggiate in campagna, dando corpo ai miei progetti di vita e recuperando tutte le relazioni che non avevo più il tempo di coltivare.
Ho il mondo davanti a me e, mentre il mio futuro prende corpo, recupero tutte quelle ore di corsi di formazione e aggiornamento che ho lasciato in rete in attesa di avere tempo. Faccio la zia, e riesco a godermi quel bambino meraviglioso a cui non riuscivo che a dedicare mezz’ora la settimana: lo imbocco, gli cambio il pannolotto, lo faccio addormentare e passo molto tempo a camminare con lui mano nella mano e a spiegargli le cose che vediamo, mentre lui è più interessato alle mie collane colorate. Coltivo il miracolo che incarna. Organizzo le presentazioni dei miei libri con calma, guardo con passione nuova tutti i 237 libri ancora da leggere che giacciono in lacrime sugli scaffali della libreria. Incontro le amiche dopo cena, senza essere tramortita di stanchezza e senza continuare a guardare il telefono per vedere se è arrivata un’email, senza incollare gli occhi all’orologio per calcolare quanto riuscirò a dormire.
Depenno le attività sull’agenda senza che mi vengano le lacrime agli occhi per la commozione, e senza essere soffocata dall’impressione di un imminente collasso neurologico per overload. Ho deciso anche di tornare ad insegnare e dare ripetizioni. Il 24 luglio partirò per la Sardegna e farò una presentazione del mio libro “Giulietta prega senza nome” nel bellissimo borgo di Aggius, incastonato nella Valle della Luna, in Gallura, e proprio da lì partirà probabilmente una nuova avventura. Un cambiamento è sempre un’occasione, in un modo o nell’altro. Spesso molto più preziosa di quanto ci saremmo mai immaginati. Per il momento vivo le mie giornate senza fiato per l’emozione di essere libera e di avere di fronte a me un futuro tutto da reinventare: sono piena di idee appassionate. Vivo il lato illuminato della disgrazia. Auguro a tutti quelli che vivono la mia condizione di trovare lo stesso.
di Elena Torresani | @ElenaTorresani