di Matteo Zola
I risultati
La Russia esce dalle urne meno unita, o forse meno unita al suo leader Vladimir Vladimorovic Putin. Secondo i primi exit poll diffusi ieri sera il partito di Putin, Russia Unita, passerebbe dal 60% al 47% dei consensi. Stamane la forbice si è andata riducendo con la progressione dello scrutinio: con il 60% delle sezioni esaminate Russia Unita si attesta al 50,1%, il Partito Comunista al 19,49%, Russia Giusta al 12,85% e i Liberaldemocratici al 11,95%.
Le prime rughe
Dati che non contano nulla: tra intimidazioni, brogli, e rimonte più o meno ardite il partito di Putin otterrà la maggioranza assoluta alla Duma. Ciò su cui pare interessante soffermarsi è che, questa volta, il ricorso alla cosmesi elettorale sarà più marcato che in passato. E quando il volto autoritario del potere necessita di grandi maquillages significa che le prime rughe stanno comparendo. Eppure la modernizzazione in Russia, nella società e nell’economia, procede a grandi passi. Anzi, la modernizastya è alla base del putinismo che, per finanziare la crescita, ha concentrato i propri sforzi nel settore energetico.
Modernizastya e democrazia
Come ricordato da Serena Giusti, in Russia’s modernising alliance with the Eu (Ispi studies, settembre 2011) dopo gli anni di El’cin, il ritorno a una Russia quale polo di potere nel sistema internazionale è stato possibile grazie a una crescita economica – di molto superiore a quella europea ed americana – fondata sui dogmi del mercato, del liberismo, della concorrenza.
Nel gennaio 2011, al World economic forum di Davos, l’allora presidente Dimitri Medvedev fece un discorso memorabile: «La Russia è spesso criticata, talvolta meritatamente, per la corruzione del sistema giudiziario, per la difficoltà nel costruire uno Stato di diritto, per la lenta modernizzazione dell’economia. Noi siamo impegnati su questi fronti e li vogliamo coniugare alla crescita della qualità della vita in Russia. […] Sono convinto che la crescita della democrazia possa contribuire alla modernizzazione economica».
La recessione e l’autocrate
La “crescita della democrazia” auspicata da Medvedev si scontra oggi con le poco incoraggianti previsioni sullo sviluppo economico russo nel prossimo decennio. Le prospettive di crescita economica sono infatti meno rosee del previsto: il Pil russo è sceso del 7,9% tra il 2008 e il 2009 (il dato peggiore del G20). Un dato che, come ricorda Philip Hanson in The economic development of Russia: between state control and liberalisation (ricerca del 2010 finanziata dal Ministero degli Esteri italiano) non si deve alla crisi del petrolio poiché altri Paesi che sono importanti esportatori di oro nero hanno subito un declino molto modesto. La ripresa è stata finora timida, solo un 4% di crescita del Pil nel 2010 con un outlook del Fmi che prevede il 3,2% medio annuo fino al 2020.
In fase calante
Troppo poco. E allora ecco che in un contesto di crisi il vecchio Valdimir vuole tornare al timone. La stretta sui dissidenti, il ritorno annunciato al Cremlino (non prima di aver nuovamente trionfato alla Duma) sono però il segno di una debolezza: la recessione potrebbe causare contraccolpi sociali e politici che richiederebbero risposte autoritarie, e una Russia indebolita all’interno si troverebbe poi a retrocedere in politica estera senza contare la sclerosi cui i regimi autoritari vanno incontro nella fase calante della loro parabola di potere. Una fase calante che inizia con questo risultato elettorale.
Una storia che si ripete. La Russia, infatti, insegue la “modernizzazione” da secoli: Pietro il Grande, il conte Witte, persino Josip Stalin l’hanno perseguita senza successo. La Russia è cambiata ma la sua economia non è mai stata al passo con la modernità. Quella di Putin è dunque anche una sfida con la Storia che, ancora una volta, sembra lungi dall’esser vinta.