Elia Malagò - Golena

Da Ellisse


Elia Malagò - Golena - Lietocolle 2014

La golena, come sa chiunque viva come me vicino ad un fiume, è un più o meno vasto terreno di incerta proprietà tra acqua e argine, una specie di terra contesa  spesso occupata "abusivamente" dall'uomo con piantagioni, orti o costruzioni, e di cui talvolta il fiume si riappropria con qualche violenza. Ripensavo, leggendo questo bel libro di Elia Malagò, bello anche  come "cosa-oggetto" (parole sue, ed è vero), che  anche la vita, lo spirito, il corpo, i rapporti, hanno le loro golene, i loro luoghi incerti e tuttavia familiari, di incerta attribuzione (perché comuni a molti che vi hanno abitato)  e tuttavia popolati di personali ricordi. Un territorio quindi che assume, nella scrittura, una funzione metaforica senza però allontanarsi troppo da una concretezza - anche di parole -  in cui si possa affondare le mani. Una specie di cassa di espansione in cui l'esistenza, e il dolore, possano esondare, trovare un loro spazio di riflessione. "Le parole sono del 2012" - avverte Elia in una nota - "e sono il diario di un dolore; le interrompe il terremoto del 20 maggio". Del dolore, noi lettori, possiamo solo immaginare, pochi sono gli indizi, sparsi in alcune poesie molto belle, ma dobbiamo - lo dico subito - tenerne conto, perchè sono "dolori senza nome", che talvolta "ti impiccano a una parola / che non sale" e vanno, nella lettura,  percepiti per vicinanza, vanno spigolati tra i versi. I dolori inoltre sono ferita aperta che si ripercuote sul fare poesia, ombre a cui la poesia senza distinzioni deve trovare un luogo di riposo: "e così ho conosciuto il mio male / trovare un posto a tutti i dolori con la rigidità / dell'uguaglianza a prescindere" (in sotterraneo); il terremoto invece, che nei testi non traspare ed è quello che colpì l'Emilia,  fissa soltanto una data in cui il lavoro si interrompe, forse quando la terra riporta ad una diversa realtà, più elementare e immediata. E tuttavia anch'esso rammenta che quella terra padana esiste ed è parte imprescindibile della poesia di Malagò. Una terra con cui il rapporto è diretto e non ha niente di strapaesano, è semmai il luogo degli affetti e dei dolori, e soprattutto il luogo del mondo in cui ci è stato concesso di essere e di essere stati. E con la quale nemmeno si ha un rapporto mitico o mistico, cercando piuttosto di preservarne, pur con la sua ancestralità e non pochi Lares, una attualità, un "adesso" persistente che li salva. Una attualità "resistente" che a me pare, almeno in questo libro, distante e diversa da quanto affermava Maria Grazia Lenisa (ringrazio Marzia Alunni di questa nota): "Il presente, se pure tutto venga riportato ad esso, anche nell'uso delle forme verbali, è assente ed è in questa dimensione di presenza-assenza che si colloca l'atteggiamento poetico di Elia Malagò, alcuni miti o archetipi: eros- fanciullo di morte, il senso di una morte ingiusta perchè ingiustificata; il ritorno all'utero materno, causa dell'inspiegabilità del mondo in cui la donna vive e che è, nello stesso tempo, una possibile risposta agli interrogativi sollevati appunto dalla nascita" (in L'alterità immaginata, Forlì 1986). A mio avviso lì Lenisa individuava un ripiegamento, in questo libro invece mi pare di intravedere qualcosa di diverso, e non a caso ho parlato di attualità resistente. E' chiaro, come dicevo prima, che il territorio, la campagna, il Po hanno poi un senso tropico, traslato e non sono certo l'unico costituente del libro, rappresentandone caso mai il canovaccio, l'ordito (che è anche il titolo di una delle poesie) o se preferite quella scatola dei ricordi che tutti i ragazzi hanno avuto sotto il letto. E tuttavia, come dicevo prima, la distanza metaforica non è accentuata, non è vaga o spostata mai troppo verso il correlativo, sia perchè dalla visione di Elia di questo territorio, fisico e dell'anima, di questa natura e di questi accadimenti traspare sempre uno sguardo intimamente femminile, "materno"; sia perché è il linguaggio stesso ad essere spesso concreto, materico. Elia possiede una grande capacità di muoversi e scegliere tra le possibilità retoriche della lingua. Inutile occuparsi di quante figure Elia riesca a mettere in gioco, articolando il suo pensiero poetico, ma è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua è una scrittura esatta, in cui gli oggetti sono nomi, alcuni dei quali anche arricchiti da una sonora nuance dialettale, segno di un legame anche con una certa koiné, tra lingua e terroir. Una scrittura nella quale è agevole trovare un sentiero nel tessuto delle parole, un filo rosso che attraversi tutto il testo, spesso verso finali sospensivi, come filari di pioppi che sfumano nella nebbia padana, appoggiandosi sia alla capacità evocativa, sia a una funzione emotiva spesso potente (v. ad es, più oltre Meopà). E però una scrittura non certo tradizionale, anche se  appartenente a una generazione letteraria, della storia, del gusto che parla un linguaggio forse felicemente alieno (e certo come vedremo più resiliente) rispetto a certe espressioni poetiche odierne, una scrittura soggetta ad un lavorio costante, dimostrato anche dalle varianti agli stessi testi presenti nel libro, come a quel Fondale che pubblicai tempo fa (v. QUI). Ma certo l'idea  più forte di questo libro, l'idea che Elia persegue anche in altre opere, e che spesso riesce ad afferrare, è quella di una capacità, anzi di un piccolo potere etico-politico che la poesia ha o che dovrebbe darsi.  Resilienza, una parola che Elia ama molto e che ogni tanto appare. E' questo il vero nocciolo duro della poetica di Malagò, nessun velleitario strappo o balzo in avanti, nessuna "ricerca" che non sia un'ulteriore scoperta di una sfumatura, una piega, qualcosa che era sfuggito nel ricordo. Resilienza è un termine mutuato dalle scienze e significa non solo la capacità di un materiale di resistere alla rottura dinamica, ma anche quella di una società, di un gruppo, di un ecosistema di recuperare più o meno velocemente le condizioni sconvolte da un evento. Ma in Malagò, come in pochi altri autori, il senso vero del termine, come un valore aggiunto, è quello di resistenza, una resistenza connotata da un atteggiamento di voluntas attiva, una accanita e gelosa difesa del sé, inteso nel senso più ampio del termine. Ecco quindi che anche un fiume, un vecchio muro, una golena, un vento tramontano possono assumere (e qui si torna al valore "tropico", traslato, delle cose) un significato "esteso" che travalica quello meramente oggettuale. Resilienza è termine che appare anche nella breve prosa di apertura, una dichiarazione di poetica utile più di tante prefazioni. Dice Elia: "la poesia è per me quello che resta delle lacrime del mollusco per spazzare o avvolgere il granello di sabbia che gli si conficca dentro (...), un peduncolo sottile che mantiene saldo il legame con il fondo (...). La conchiglia, alla fine, è il dono che altri, se vorranno, avvicineranno all'orecchio per sentire restituita la propria voce forte dell'eco delle parole in attesa (...)". Ecco qua (i corsivi sono miei), in sintesi: ferita, dolore, risarcimento e cura; legame (ma anche ancoraggio) a un sostrato di vita fondamento dell'identità personale; scrittura, rinvenimento e richiamo alla luce delle "parole per dire", quelle che sopravvivono pazientemente nel profondo, quelle parole, dice a un certo punto Elia, "legate con la raffia e silenzi". Sono questi i compiti e insieme le responsabilità che Malagò assegna alla poesia, la resilienza che essa è capace di esercitare. Come mi scrisse tempo fa: "dobbiamo solo riprendere le parole e la loro lezione: la resilienza". E potremmo aggiungere un altro suo pensiero: "Metto mano a parole così antiche da non esistere quasi più. (...)La manomissione è ridare l'innocenza alla parola, lo spessore e il colore e l'ombra che le è stata rubata per togliere l'innocenza a ciascuno di noi, dal momento che siamo le parole che abbiamo" (da Incauta solitudine, Passigli 2010, libro di cui spero di tornare a parlare). C'è però, anche per questo lavoro etico e "politico", la necessità e il coraggio  di calarsi, di "affondare" in una materia che non può essere trattata superficialmente. Si profila allora  un'altra idea forte, un topos ulteriore che mi pare di poter identificare nella poesia di Elia: l'annegamento, altra parola densa che ricorre. E' quella sospensione del respiro, quell'apnea che è sfida e tentativo di stabilire un limite di rottura, cioè - ancora - una resilienza. Anche qui, ovviamente, c'è una funzione metaforica, un'iperbole di qualcosa che è reale vissuto, parte del rapporto di Elia col fiume, magari in qualche estate di tuffi: fin dove possiamo spingergi, a quale profondità, fino a quale soglia del dolore? Ed anche, fin dove può scandagliare  il pensiero che ripercorre le cose, nell'acqua, nel liquido amniotico (e qui forse Lenisa ha ragione parlando di utero materno), nell'intimo silenzio liquido rotto solo dall'acufene, un barotrauma, un disturbo dell'udito, altro termine che affiora, qualcosa legato strettamente all' "annegamento", all'apnea? Non è quindi un caso che uno dei testi che contiene questo riferimento all'annegamento si titoli appunto "resilienza" (V. oltre). Certo molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla poesia di Elia Malagò, e spero di averne l'occasione, ma almeno queste  due cose  mi pare che siano fondanti e necessarie da avere a mente nella lettura di questa raccolta che non è solo di poesia ma anche sulla poesia. "Libro-conchiglia", dono da portare all'orecchio, eco di parole in attesa. (g.c.)
Acufeni
Ci sono domeniche di nebbia
a caligine che scende sulla bassa come fosse un pianoro
docile e bagnata
slavina le ore e le condensa tra le tredici e
quel che resta di luce
la bolla d'aria che sospesa nella testa
ti naviga dentro e intorno


ti accorgi dopo
che non se ne va più



il muro del pianto

E lì a toccare pietre e calce
di una lunga amaritudine solitaria
che spegne la festa e incendia
sterpaglie e canne di palude spazza
via grappoli di tenerezze sull'asfalto di ghiaccio
ti dice che l'estate è la sola stagione che finisce
e dove precipita non lascia segni
ti pieghi e taci
finalmente lo sai che non c'è niente da dire
fare baciare se prima non vomiti l'anima e il suo tempo

sottosuolo
Centanni di sottosuolo stillano i muri e scardinano sopra
e sotto solette leggere agganciate nei cementi di elastico
consumano menischi nella ruggine smussano lente
a ogni passaggio del merci — adesso un po' meno che
le merci non viaggiano e la casa si assesta a rilento
più pigra e pesante su un intonaco incipriato
centanni di sottosuolo riempiono tutti
gli scantinati di questa vecchia terra di privilegi
che si può anche stringere e andare a centanni
centanni di sottosuolo riempiono tutti gli scantinati della terra
anche quelli senza casa
e quelli senza terra
un tempo che pare non finire più
poi esplode in una mattina come le altre
all'improvviso e si resta
molto più a lungo a chiedere
perché percome quandomai
quandoadesso
epercheproprioadesso
che sparati fuori secolo anche prima
ciascuno s'è fatto i fatti suoi
più piccolo e silenzioso
Non vorrei
riavvolgere il nastro
riprendermi imparata la strada
tra belvederi a contare gli anelli
delle colline oltre la spianata
di una pianura sprofondata sotto il mare
ogni tanto un campanile senza l'ombra
di silenzio e nudità
che mi trafigge in un faccia a vista di mattoni inchiavardati
una carezza muta di lunghe estati
assolate e ruvide
Né seguire questa cavedagna di xanax
slargarla puntandola dritta al cielo
per una tregua
Il tempo che stana il segreto
è un fucile sparato di zolfo giallastro
un'aura che secca cade a terra e solleva la polvere
bufera
fischia un vento tramontano
frusta plenta1 nel sole
che scaraventa le mollette di rincalzo oltre
il terrazzo al riparo
straccia lenzuola a quadretti e spugne iridescenti
senza direzione neanche asciugano ritirate
invadono casa e libri di aura macerata
sibila tramontano senza bufera
manca
l'ira che sfascia muscoli e testa
libera meningi e mondo
asciuga
dolori senza nome e verso d'incanto e probità
ogni pietà prosciugata
ho perso fìnanco i nomi
attesa
Credere è stare tra gli argini alla galaverna
della nebbia che imbianca l'angelo e ovatta
le felci con l'alito del gelo
Al riparo dal pianto di condensa che tutto
confonde e raggruma impala la gola
e le parole sono stalattiti
senza ombra lame
a schiudere le labbra
sotterraneo
Una vecchia carta assorbente
di macchie sovrapposte ancora apre spire e spore
per un'accoglienza...
e così ho conosciuto il mio male:
trovare un posto per tutti i dolori con la rigidità
dell'uguaglianza a prescindere
investono con la certezza del diritto e
mi sfracellano sotto un tir che per caso
si mette di traverso dopo il curvone
basta una renella leggera
il mal di pietra
un dubbio piccolo al giorno
per ingrossare la valanga silenziosa
che mi abbatte
invisibili entrambi
masticare l'acqua
allora mi tocca
tocca a me che ho lacrime invisibili
retaggio materno
questo privilegio
di annegarci dentro conservando i muscoli a riposo
il pianto è mostrare finalmente la faccia
tanto il cuore resta dove vuole
o dove può
perché nessuno farà mai la traversata
il mio ha l'odore scuro del barchino impeciato
quando mastica l'acqua rimasta
nella siccità
meopà
1° maggio
Meopà, fanno ventanni a quest'ora,
si è seduto sotto la finestra
con il garofano rosso e il cravattàio d'ordinanza
della sola festa che celebrava oltre il suo santo
— ha rinunciato al mezzo toscano per lo sciopero
a ogni rincaro.
"vai, che sono solo un po' rotto",
passava le mani sul gilè in tinta
la sfoglia di spinaci e mezzo bicchiere di sangiovese
"dai, che tra un po' piove". Sono rimasta a guardare
il suo buffo cappello di feltro leggero
per il pudore di una carezza sulla faccia mal rasata
anche i peli erano diventati teneri
Al ponte di ferro su un'acqua rugosa
le prime gocce rade e spampanate, "il vecchio leone
sguarda ancora"
ho masticato sul calcio minuto per minuto.
Più di tutto mi mancano gli occhi lucidi e la mano
a dare la direzione: "fa' presto e vai piano"

resilienza
dall'estate dentro Po
mi sono annegata poche altre volte
sempre più raramente ma
ogni volta più dura l'apnea
non so se anche più a lungo.
I tempi della resilienza vagano come impervie
stranezze: nella cruna dell'ago
tutti diversi, un arcipelago della deriva
- mai nulla di pronto, solo l'allerta
dei sensi dura tanto che alla fine ti abitui
come al ronzìo del timpano.


L'acufene alla lunga come un corpo mobile
scarica il tempo cambiando la postura: quasi
elegante appoggia i gomiti sul tavolo della cena
e della domenica pomeriggio

1 Plenta: (agg.) indica un colpo immediato e forte (uno schiaffo) a tutto palmo fino a levare la pelle (nda)



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