Bisogna essere attivamente antifascisti. La Storia fa il suo corso: il 23 marzo 1919 sembra lontano, ma non lo è affatto. Purtroppo. Non serve indagare sul Neofascismo e sui gruppi formatisi alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, né sulla crisi economico-sociale che sta mettendo in ginocchio l’Italia negli ultimi anni; basta fermarsi alla cronaca per avere un quadro chiaro. E sconcertante. La Storia fa il suo corso, insomma. Ma nessuno ha mai escluso i ricorsi, anzi.
Attivamente antifascisti, dunque. È l’unico modo per fermare il ricorso, per non arrendersi e non divenire testimoni di una nuova marcia su Roma, di nuove leggi fascistissime, di una nuova inesorabile caduta nel vuoto. La coscienza ci spinge a prendere le distanze da Benito Mussolini, dalle camicie nere, dall’uccisione di milioni e milioni di ebrei, zingari, omosessuali. La coscienza ce lo impone. Ma, nei fatti, possiamo dirci profondamente antifascisti? Siamo davvero schierati in questo senso? Non tutti avrebbero la risposta pronta, non spenderebbero neanche tempo nel cercarla.
Ed è proprio a causa di questa indifferenza, già condannata da Alberto Moravia, che il male attecchisce. Fino a quando non ci tocca, non abbiamo motivo di preoccuparci. Sono gli altri a doversi interessare: i problemi sono di chi li ha, non c’è motivo di allarmarsi. E se tutto questo, un giorno, ci si rivoltasse contro? Se l’avvento di un nuovo Fascismo diventasse il prezzo della nostra eterna indifferenza, cosa succederebbe allora? Servirebbe un nuovo ricorso: nuovi partigiani, nuovi morti, una nuova dittatura. E ci sarebbero, per l’ennesima volta, astratti furori.
«Ma bisogna mica ch’eran astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo»
Quest’uomo è morto: è un tipografo di una grande città del Nord Italia; si chiama Silvestro. Ci ricorda un po’ il Corrado della Casa in collina di Cesare Pavese, quel Corrado che si rifugia e non combatte. Anche Silvestro è così: il suo capo è “chino”, qualsiasi speranza è morta. Il Fascismo ha preso il sopravvento, la coscienza individuale è stata distrutta. C’è spazio solo per Mussolini, nel 1938, e per la guerra imminente.
Elio Vittorini non è protagonista assoluto di Conversazione in Sicilia: lascia spazio a Silvestro, che, almeno nei primi capitoli, non ha il coraggio di ribellarsi. L’autore possiede, invece, una forza straordinaria: rompe con il Fascismo, inizia la stesura dell’opera nel 1937, riesce a pubblicarla in cinque puntate su Letteratura. Poi ha dovuto vedersela con la censura, questo è vero, ma non gli è interessato: nell’estate del 1943 è stato persino incarcerato per aver organizzato clandestinamente l’attività del Partito Comunista.
Lui ha coraggio. Silvestro, no:
«Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza»
Non riesce a fare, a dire nulla, nella non-speranza. L’indifferenza diventa impotenza. La Storia, intanto, fa il suo corso. Il 1937 diventa ’38, ’39, e la guerra ha inizio: Mussolini e Hitler intraprendono le loro battaglie; le vittorie non mancano; la Shoah è portata avanti in modo sistematico; il terrore ha divorato l’animo di quasi tutti i vecchi sostenitori. Qualcosa cambia, nel 1941: l’America entra in guerra. È la volta degli Alleati, del riscatto, della liberazione dal male.
L’impiccagione di Mussolini arriva il 28 aprile del 1945. Poco dopo toccherà a Hitler; ma del Fascismo, del Nazismo, della guerra cosa resta? Il sorriso dei partigiani, certo. La voglia di ricominciare, non c’è dubbio. Ma chi avrebbe riportato in vita i morti a causa dell’indifferenza e della “quiete nella non speranza”? Nessuno.
È questo ciò che rimane di quel corso storico: morti inutili, ai quali appartiene la verità della sofferenza. Morti che hanno fatto i conti con un movimento che ha ricevuto il sostegno di migliaia e migliaia di menti; le ha ingabbiate, ha sottratto loro la coscienza, inquadrandole nel regime totalitario. Questo non deve più succedere. Sarebbe stato meglio che scrittori come Primo Levi non avessero mai avuto motivo di scrivere la loro opera, di regalarci una testimonianza che pesa, e fa male.
I nostri “furori” non devono essere astratti. La nostra deve essere una ribellione né anarchica, né anticostituzionale, né barbara. Le nostre prese di posizione interiori devono essere quotidiane, in contrasto con questa vile indifferenza e lontane da qualsiasi tentativo di far apparire come “isolati” casi e fatti di cronaca che non lo sono affatto. Il fascismo deve morire, una volta e per sempre.
Non c’è bisogno di partire per la Sicilia come ha fatto Silvestro; la nostra coscienza non può presupporre fuga e assenza, ma solo e insindacabilmente presenza. Attiva. Silvestro era quieto:
«Ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa essere felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere […]; ma mi agitavo entro di me per astratti furori; e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe»
Passivo, e nient’altro. “L’acqua gli entrava nelle scarpe” – sembra come se il cuore non gli battesse più. Un morto vivente, e consapevole. Sarà la sua Sicilia a salvarlo. Ma noi necessitiamo davvero della nostra Sicilia? Bisogna per forza arrivare a tanto? La risposta, forse, può darcela Albert Camus:
«L’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente, poiché la continua.»
Se è vero, insomma, che la Storia ha un corso, è altrettanto vero che siamo noi gli unici artefici del ricorso.