Note su Diane Arbus, Retrospettiva, Jeu de Paume, Parigi
Indossare sé stessi come si indossa una maschera, e dietro questa un’altra e un’altra ancora, tale é entrare nel circolo decentrato dei ritratti , nella serialità divergente dei volti di Diane Arbus.
Il suo lavoro rinvia all'interrogazione costante, alla fessura aperta tra l'essere, il dovere o voler essere e l’apparire altro.
La costruzione del sé, del volto come identità, si rovescia nel cedimento della medesima di fronte alla non-concidenza, all’inadeguamento tra forma e anima.
La
costruzione fittizia d'un volto femminile, nascosto da una cortina nera
e coperto da uno spesso strato di trucco, é colto giustamente in
questa impostazione o impostura di presenza. Volto-maschera,
simulazione, facciata, simulacro in variazione eccentrica di sé stesso
nell’assenza di un modello originario.
Portrait, New York, 1968
Giovane famiglia a Brooklyn: l’impalcatura dell'essere sociale, della figura in quanto costruzione rispondente alla norma della società americana é confrontata al punto della sua incrinatura o non-tenuta, tali le crepe che s'aprono, che si intravvedono sulla realtà costituita per il solo fatto d'essere messe “in quadro”, portate in superficie dal processo fotografico. Cosi’, la semplice smorfia di un bambinetto preso per mano dal padre va a infrangere il quadro glorioso, idealizzato della visione famigliare in America.
Fotografare
il cedimento della figura in quanto realtà sociale apparente e
costituita significa in Arbus fotografare la differenza compresa come
ogni forma d' anomalia, d'anormalità, di marginalità, di follia, di
deviazione o devianza rispetto al quadro del giudizio normativo , al
modello identitario dominante. A un certo livello cio’ si traduce nella
scelta di soggetti eccezionali, extra-ordinari dalla singolarità
affascinante o mostruosa, il lungo corteo di personaggi “mostri”che
popolano negli anni il suo universo fotografico; ma, a un altro livello,
é la superficie più “normale” , più conforme della realtà quotidiana ad
essere smascherata come impalcatura fittizia, tanto più costruita,
abnorme, anormale che l'altra.
Jewish Giant, taken at Home with His Parents in the Bronx, New York, 1970
La demistificazione di realtà va di pari passo con la sua iconoclastia suggerita, non apertamente convocata, insinuata al limite della fessura, della crepa, nello spostamento sottile del binomio verità-realtà, al limite della sua piena credibilità o autenticità come tale, dunque nella destituzione della medesima da una posizione di sacralità. L'iconoclastia suggerita non é cancellazione o assenza d'immagine ma immagine-ritratto che si mostra in questa rottura voluta, inevitabile, prodotta dalla mediazione fotografica. La visione, per esempio, del giovane americano, con abito impeccabile sventolando una bandierina patriottica, celebrazione dell'ideale nazionale, é messa sullo stesso piano della deformità, dell'esposizione del corpo senza maschere, nudo, “nudista”, informe nell' abbondanza liquescente della carne.
Difficile trovare in queste fotografie momenti di autenticità epifanica, di vero trasporto o riconciliazione con la realtà. Più spesso quello che vi appare è la cesura, il meccanismo contrario di scollamento dell’immagine, della figura che, messa alla prova di verità, senza concessioni né intercessioni, sembra d’un tratto cedere, non reggere il confronto con la critica della realtà.
Nuvole
re-inquadrate in schermo fittizio di gigantesco drive-in, un mangiatore
di fuoco in una fiera paesana, bambinetti al parco facendo smorfie
all’obbiettivo, l’ uomo senza testa in un’ installazione da circo,
clown, funambuli, equilibristi e trasformisti.
Child with Toy Hand Grenade in Central Park, New York City, 1962
Volti-maschere, volti in travestimento carnevalesco, dettagli di torsi nudi in gioco di multiple inquadrature tra vetri e specchi, ragazzina gitana a piedi nudi su un sentiero di terra battuta, vecchia signora borghese in strada; volto-cortina, occhi socchiusi, calco di cera museale ma attraversato da grinze, rughe, stirature di pelle.
Tale rifacimento plastico della figura é volutamente colto in un' eccesso di forma, nell' estremo di un fittizio-iconico simulato che ne denuncia implicitamente la credibilità. La chiarificazione ossessiva nella scelta stilistica del ritratto passa attraverso forme volutamente colte nell’immobilità della loro identità sociale e poi il punto dove questa cede, si scolla o lascia intravvedere linee di sutura, di sovra-cucitura e insieme minuscole fessure di superficie.
Ritratti iconici di giovani ragazze benpensanti in strada, “il folle uomo nudo” completamente tatuato sul torso con un solo occhio, figura di doppio in “mezzo uomo, mezza donna”, ragazzini con maschere del “fan club dei mostri” sui gradini d'una casa in America. “L’uomo che ingoiava lame di rasoio”, un bambino con il viso coperto di carbone, la ragazza con il cappello e i guanti, l'uomo dagli aghi piantati sul viso in diversi punti.
Gemelle
siamesi su una spiaggia, neonati siamesi in scatola di plexiglass,
coppie, doppi, sdoppiamenti, ripetizione in serie della stesso,
serialità messa alla prova; nella ripetizione qualcosa accade.
Identical Twins, Roselle, New Jersey, 1967
Quadri, specchi, schermi, gioco di inquadrature e rinvii di immagine. Il mondo è inquadrato, messo in cornice, “in scena” attraverso le sue individualità e, insieme, leggermente spostato dalla cornice della sua presunta apparenza o veridicità.
Una
casa a Hollywood nel 1962: facciata apparente, visibile in primo piano
e messa a nudo della medesima come semplice impalcatura svuotata alle
spalle, dissecata, lasciata alle sole assi portanti, sottoposta al
processo fotografico che, inevitabilmente, ne mette in scena la
demistificazione. (Elisa Castagnoli)
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