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Il primo impatto con Elle veut le chaos (2008) non può che essere positivo soprattutto se rapportato al film che lo precede di appena un anno Nos vies privées, non che quest’ultima fosse un’opera sciatta da denigrare attraverso il paragone (non è così, ci sono dei meriti e invito a chi ne ha voglia di riscontrarli sul campo), però è lapalissiano il cambio stilistico che Côté ha impresso nel giro di trecentosessantacinque giorni, e indubbiamente non è soltanto il bianco e nero a rimarcare il distacco, ma più d’ogni altro punto estetico la sofisticazione delle riprese non più in preda ai tremori del polso, al contrario: si avverte uno studio articolato nella maggior parte dei – se non in tutti – movimenti registici grazie ad una punteggiatura fatta di morbidezza, quasi sospensione aerea, che ritrae con spostamenti a mezzaluna i pigri personaggi che abitano la scena. Tecnicamente Côté, al terzo lungometraggio, impressiona favorevolmente anche per merito di dettagli impreziosenti (la sequenza dell’incubo è notevole, al pari di molti altri fotogrammi dalla forza icastica) che ci consentono ancora una volta di scoprire l’acqua calda: se il talento c’è, semplicemente, si vede.
Discorso opposto se ci posizioniamo sul piano narrativo (la sceneggiatura è scritta dallo stesso Côté) che non raggiunge la levatura delle immagini, anzi il dubbio è proprio che il canadese si sia interessato di più alla forma che al racconto; ciò non è un’azione additabile visto che ad un autore va concessa la libertà che desidera e, se lo merita, premiarlo per tale scelta, da una veduta più pragmatica resta il fatto che Elle veut le chaos non ha un racconto “che prende” e più si susseguono i minuti più la storia si dimostra inconcludente, tranciata qua e là, ripresa, impepata da legami sanguigni fino a quel momento sconosciuti, annerita da virate noir-provinciali, e proprio la questione tra virgolette thriller evidenzia uno stato fetale degli intenti che troveranno congruo compimento in Curling(2010) dove nuovamente la campagna sarà palcoscenico per delitti e bassezze varie ma con piglio d’altra fattura. La sterilità degli accadimenti, che si affidano al non detto intorbidendo le acque, con cui è arduo entrare in sintonia, non macchia la veste del film che, comprensibilmente, vinse a Locarno il Pardo d’Argento per la miglior regia.
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