Quante volte ci siamo trattenuti, quante volte abbiamo preferito appartarci pensierosi, non confidarci. Quante volte abbiamo lasciato il mondo fuori, sperando divenisse pianeta in lontananza. Sarà capitato a tutti, e forse è giusto così. Perché – regola che vale sempre – solo la privazione di qualcosa assicura la capacità di apprezzarne poi la presenza. E così è per la conversazione, arte che alla prossimità fisica aggiunge quella soave dello spirito. Conversazione verso la cui pratica, dicevamo, ultimamente mostriamo una certa diffidenza. Del resto, gli ostacoli ad un incontro reale ormai abbondano: contatto Caio via sms, Tizio su Facebook, Sempronio tramite WhatsApp.
Lo stesso telefono unisce ormai più voci che pensieri, frasi confuse più che discorsi. «Dal telefono – commenta il francese Christian Bobin – passa solamente l’insignificante o il tragico, la chiacchierata indefinita o la morte improvvisa. Tra i due, nulla». Il costante declino dell’esperienza del parlarsi ha raggiunto livelli tali che solo il desiderio di farlo viene oggi letto come uno strategico pretesto; basta infatti essere raggiunti da un “dovrei parlarti” per aspettarsi qualcosa che non sia semplice dialogo: alle ragazze può generare il presentimento che quell’amico così platealmente innamorato si sia deciso a dichiararsi; nei mariti e nei fidanzati suscita la fondata preoccupazione per un annuncio non troppo allegro da parte delle loro amate.
Ciò nonostante è bene non fare a meno del piacere di conversare andando anche oltre, se possibile, a battute scontate. Anche perché ci fa oggettivamente bene, conversare: uno studio, analizzando la felicità su base giornaliera – valutando cioè effetti nel brevissimo termine -, ha rilevato maggiore benessere non soltanto in chi passa più tempo a parlare con altri anziché stare solo, ma anche in chi affronta discorsi di maggiore sostanza rispetto a quanti si fermano a parlare del più e del meno (Cfr. Psychological Science 2010; 21(4): 539–541). Aiutano anche incontri brevi: da un altro lavoro è emerso come impegnarsi in conversazioni di una decina di minuti migliori l’abilità nello svolgimento di comuni compiti cognitivi (Cfr. Social Psychological and Personality Science 2011; 2(3):253-261).
Il bello poi è che parlando possiamo beneficiare di quanto di più prezioso vi sia al mondo: l’ascolto. Sempre che sia vero ascolto naturalmente, e non l’annuire meccanico di chi ci sta a sentire più per noia che per reale interesse. Per quanto riguarda determinate confidenze, poi, rimane importante la prudenza, ovvio. Il problema oggi non sembra però quello dell’esagerazione ma, al contrario, quello della reticenza: siamo in grado di parlare anche moltissimo, ma dicendo poco o nulla di noi. Per paura di essere giudicati, incompresi, magari traditi. Ci sono figli che non dicono “ti voglio bene” ai loro genitori per molto tempo, anche anni, qualcuno perfino mai.
Lo stesso vale fra amanti come fra amici: la conversazione sovente si appiattisce ancora prima di iniziare, facendo sì che uno si senta incompreso quando semplicemente non è ascoltato e che semplici pensieri finiscano anzitempo nella stanza dei segreti che ci portiamo dentro. Pensieri che giorno dopo giorno si accumulano fino a quando arriverà quella serata speciale. Fino a quando due birre non celebreranno la rottura di un silenzio, oppure un incontro con qualcuno che ci guardi negli occhi, che parli con noi anche nel silenzio, prima che qualcuno dei due apra bocca. E’ un incantesimo difficile da spiegare, che vivono solo gli amici veri o gli innamorati: la gioia di raccontarsi tutto senza guardare più l’ora, anzi temendola. Perché ci sono conversazioni, le migliori, che non durano mai abbastanza.