Da secoli si magnificano il dolore, il sacrificio, la rinuncia, l’autoflagellazione, adducendo le ragioni più disparate. Alcune fedi e filosofie li hanno eretti a fondamenti delle loro concezioni. Bisognerebbe, invece, promuovere la gioia che è la vera fonte della creatività e della spiritualità.
Bisogna intendersi: non ci riferiamo all’allegria becera dei bruti, ai godimenti sfrenati dei materialoni, ma alla felicità che dipende da un senso di ricchezza interiore, da un entusiasmo (thymòs) che è adesione alla vita, amore per la natura lato sensu. Ovviamente questa rarissima forma di letizia è venata di tristezza, della coscienza che è destinata ad essere perduta forse per sempre: non coincide dunque con la serenità che non esiste e non può esistere in questa disgraziata dimensione.
E’ un vero peccato che nel mondo la giocondità sia così infrequente: essa renderebbe il mondo più bello, più armoniosi i rapporti tra le persone, più roseo il tempo. Consideriamo quali sono le conseguenze dell’afflizione: l’aridità, il deserto dell’anima, una mera sopravvivenza, la chiusura in sé stessi, il rifiuto, la noia, l’esacerbazione, il malumore... Allora perché l’amaro e l’abbattimento sono tanto diffusi? Essi, lungi dall’essere strumenti di elevazione, sono vicoli ciechi. Ancora una volta abbiamo il sentore che qualcosa di storto e di irrazionale deformi il disegno delle cose.
Quando gli dei distribuirono le buone e le cattive sorti furono avari delle prime e prodighi delle seconde. Furono generosi spesso con chi aveva ed ha più demeriti che meriti.
Non erano dei.
In testa all'articolo un'opera dell'artista Carla Colombo intitolata "Inno al cielo d'estate".
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