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Elogio della rigidità

Creato il 11 settembre 2013 da Keynesblog @keynesblog

Elsa-Fornero

Contrariamente a quanto spesso propagandato, una certa dose di rigidità nel mercato del lavoro non solo non danneggia l’economia e non crea disoccupazione, ma offre un efficace antidoto all’instabilità dell’economie di mercato

Introduzione
La gran parte dei manuali di macroeconomia spiegano che la disoccupazione è dovuta a “frizioni” sul mercato del lavoro che impediscono ai salari di scendere ad un livello tale per cui le imprese trovino conveniente assumere nuovi lavoratori e così riassorbire la disoccupazione. Queste “frizioni” vengono ricondotte dalla scuola cosiddetta “New Keynesian” (cui aderiscono, tra gli altri, Stiglitz, Krugman e Blanchard) a comportamenti “razionali” di imprese e lavoratori. Ad esempio, le imprese potrebbero offrire salari più elevati di quello di “equilibrio” per evitare che i lavoratori riducano il loro “impegno” (salari d’efficienza). Oppure i lavoratori già inseriti nel ciclo produttivo (insider), grazie al loro potere contrattuale, possono ottenere salari più elevati di quello di equilibrio evitando di essere sostituiti grazie ai costi di avvicendamento (turnover) che l’impresa dovrebbe sostenere, danneggiando così coloro che sono disoccupati (outsider). La stessa contrattazione collettiva è vista quindi come una “frizione”, sebbene essa risponda ad un comportamento razionale.

Sebbene questi fenomeni (e molti altri) esistano, difficilmente possono spiegare la disoccupazione di massa. Lo stesso Stiglitz, che ha studiato i salari d’efficienza sviluppando il noto modello Shapiro-Stiglitz, oggi sostiene che, poiché i salari reali dagli anni ’70 sono cresciuti molto meno della produttività o sono rimasti fermi, la crisi attuale trova origine anche in salari troppo bassi, non troppo alti, e andrebbe risolta attraverso una migliore distribuzione del reddito.

La prospettiva Post Keynesiana, che si rifà più da vicino alla Teoria Generale di Keynes, mantiene invece la rilevanza della domanda effettiva quale determinante del livello d’occupazione e si mostra scettica sugli effetti occupazionali della flessibilità salariale, mettendo in guardia al contempo circa i suoi, spesso sottovalutati, effetti negativi. Come già Keynes spiegava nel capitolo 19 della Teoria Generale, la riduzione dei salari riduce anche la domanda aggregata e quindi ha un effetto depressivo sull’occupazione. La flessibilità dei salari non è pertanto una ricetta per risolvere il problema della disoccupazione. Ma essa ha anche gravi effetti sul sistema economico.

La flessibilità dei salari
Supponiamo che le imprese conquistino un potere maggiore sul mercato del lavoro e impongano salari monetari minori, ma contemporaneamente riescano a mantenere i prezzi stabili o crescenti. Questo produrrà una caduta del salario reale, cioè del potere d’acquisto dei lavoratori. Poiché questo farebbe cadere la domanda aggregata, il sistema economico è costretto a trovare una “soluzione” per evitare una crisi da scarsità di domanda. Il credito alle famiglie dei lavoratori – e persino ai disoccupati, si pensi ai cosiddetti mutui “Ninja” (No income, No Job, No Assets) – si è dimostrato un modo efficace di compensare i bassi redditi da lavoro. Questo però accresce rapidamente il debito privato. Ad un certo punto, la massa di debiti è tale per cui essi non possono venire ripagati, portando ad un default privato. Le famiglie riducono i consumi nel tentativo di disindebitarsi, vendono gli asset acquisiti (ad esempio le abitazioni) che così si svalutano, le sofferenze bancarie aumentano e ciò causa il fallimento di alcune banche e il razionamento del credito. In breve, accade quello che gli Stati Uniti hanno vissuto nel 2007.

La flessibilità dei prezzi
Uno scenario persino peggiore più realizzarsi in caso di flessibilità dei prezzi. Se insieme ai salari scendono anche i prezzi, sebbene il salario reale possa mantenersi più o meno costante, si innescano altre conseguenze deflagranti per l’economia. Da un lato il grosso dei costi delle imprese (i salari reali) rimangono fermi o si riducono in misura insufficiente. Dall’altro, le imprese, prevedendo prezzi futuri più bassi a parità di costi, perdono incentivo ad investire e assumere.
La riduzione dei prezzi, ovvero la deflazione, aumenta inoltre l’onere reale del debito per molti debitori, poiché l’interesse reale sale. Questo porta all’impossibilità per alcuni di essi di ripagare i debiti contratti o almeno alla riduzione dei propri consumi. Paradossalmente, al contrario di quello che i modelli standard di domanda e offerta prevedono, in una economia eccessivamente indebitata la riduzione dei prezzi può portare ad una contrazione della domanda, invece che al suo aumento.

Conclusioni
Da queste considerazioni discende che la rigidità verso il basso dei salari e dei prezzi costituisce un paracadute contro la deflazione, assicurando maggiore stabilità al sistema economico rispetto a salari e prezzi perfettamente flessibili.

Come sottolineato da Paul De Grauwe [link] (peraltro un economista tutt’altro che eterodosso) il debito è una variabile monetaria rigida mentre il resto (salari, prezzi, occupazione) è flessibile. Ma questa flessibilità ha effetti avversi sulla capacità di ripagare il debito. Da ciò deriva che economie più flessibili possono trovarsi in difficoltà maggiori che economie più rigide. Per evitare che la deflazione da debiti colpisca l’economia, serve qualcosa che la fermi: salari e prezzi rigidi, così come le rigidità nel mercato del lavoro che impediscono l’immediata contrazione dell’occupazione, riducono le fluttuazioni. Infine, il welfare state fa da compensatore automatico.

Nel lungo periodo, per evitare gli scenari su descritti, i salari dovrebbero crescere insieme alla produttività (regola d’oro dei salari). Questo assicura la capacità di acquisto da parte delle famiglie di quanto prodotto nell’economia, evita l’eccessivo indebitamento, mantiene la distribuzione del reddito (evitando così di deprimere la propensione al consumo media e quindi il moltiplicatore degli investimenti) e infine mantiene i prezzi costanti e quindi evita crisi debitorie da deflazione.

“… con una politica salariale rigida, la stabilità dei prezzi sarà legata nel breve periodo alla possibilità di evitare fluttuazioni dell’occupazione. Nel lungo periodo, d’altra parte, abbiamo ancora la possibilità di scegliere tra una politica che permetta ai prezzi a scendere lentamente con il progresso della tecnica e degli impianti, mantenendo i salari stabili, o di consentire ai salari di crescere lentamente, mantenendo i prezzi stabili. Nel complesso la mia preferenza è per la seconda alternativa, in considerazione del fatto che è più facile, con una aspettativa di salari futuri più alti, mantenere l’attuale livello di occupazione in un determinato intervallo vicino alla piena occupazione, che invece con una aspettativa di salari più bassi in futuro; e tenendo conto anche dei vantaggi sociali di una graduale diminuzione nel peso del debito… ”

John Maynard Keynes, Teoria Generale, cap. 19


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