Ciao Merluzzi, e ciao Vongole.
Era un po’ che non scrivevo sul blog. E la cosa non mi mancava, a dire il vero. Voglio dire, non sai davvero quanto ti manca una persona o una cosa, finché non inizia a mancarti sul serio. C’è un momento preciso in cui questo accade. Sai quando ti mancano le chiavi di casa? Quando devi entrare a casa e ti accorgi di averle perdute. Il mondo è pieno di cose inutili che diventano incredibilmente indispensabili soltanto in un preciso istante. Con le persone è un po’ diverso. Queste di solito ti mancano sul serio quando hanno smesso di essere “utili” e iniziano ad essere qualcosa di più di un preciso istante. Iniziano a diventare una macchia che si espande sulla soffitta. E tu non ti prendi cura della dannata umidità. Dici che un giorno lo farai. Che andrai lì e rivernicerai. Ma intanto la macchia si espande, ed è un tempo maledettamente umido.
Mai avuto un autunno così umido da queste parti, credetemi.
Con questo genere di macchie puoi fare solo una cosa. Dare una bella mano di vernice a tutte queste chiacchiere, a queste voci dentro la testa, dire al burattinaio “Smettila, lo so bene che è tutta una finta, vai al finale della storia e facciamola finita con queste marionette.” Sì, è una soluzione, te la passo.
Oppure puoi aspettare che tutto l’intonaco cada a pezzi e magari fingere che si tratti di “arte contemporanea”. Una bella targhetta. Decadenza, intonaco su pavimento. Museo delle Aspettative. Vernissage. Niente va più di moda dell’edonismo dolcificato di questi falsi artisti.
Ma tu, che non sei né imbianchino né artista, avresti una terza possibilità, contro ogni logica. Andare. Che si prenda tutta la casa l’umidità, che si prenda il mondo, che si prenda Vicolo Corto e pure Parco della Vittoria. Le strade che percorriamo sono fuori dalle rotte dei monopolisti delle emozioni, dei detentori di citazioni. Via.
Ho iniziato a girare. Sono finito in questo Hotel Cuori Infranti. Il posto ideale per uno che cerca storie da raccontare. L’hotel è di quelli che si trovano sulla tangenziale ovest, direzione Las Vegas probabilmente. Abbiamo tutti una Las Vegas nel cuore, e abbiamo tutti una strada dissestata in attesa di lavori eterni. Quello è il posto giusto. Non uscirai con il cuore riparato, ma avrai una buona storia da raccontare tra le mani. E non è poco. Avere una chitarra, una voce per raccontare e qualcuno che ti ascolti. Direi che può bastare.
Il tizio si chiama Tupec. Raccogliere la sua storia mi costa in totale otto dita di rum e un sigaro. Più il mio di bicchiere, mentre prendevo appunti. Tupec è uno che gira sui palchi e all’Hotel Cuori Infranti è uno di casa. Essere di casa in un hotel è roba da rappresentanti commerciali, scrittori accademici e puttane. Sul lavoro Tupec preferisce farsi chiamare Elvis, perché è quello che fa: Elvis. E lo fa tremendamente bene. Questa sera è andato liscio, sia con il rum che con il resto. Ha fatto ballare ed ha ballato, movimento di bacino, applausi e di nuovo nel camerino. Appendere la giacca, posare la chitarra, dismettere il cuore e riprendere quello vecchio dal baule. La parte più difficile, dice, è smettere di essere Elvis quando scendi dal palco ed iniziare ad essere Tupec. Non è facile. La gente ti guarda e vede sempre Elvis e magari si aspetta che mentre sei dal fruttivendolo fai un bel movimento di bacino. Questo quando sei fortunato.
Il più delle volte invece sono sguardi di compassione. Ah, guardatelo! Un altro coglione che si crede di essere Elvis. Qualcuno si gira e ridacchia. Le prime volte davo loro una bella ripassata, poi il pelo si è un po’ avvizzito e ho iniziato a dare più di schiuma e tinta, che di mano e calci.
Gli chiedo, oltre ad essere Elvis qual è la cosa più rock che hai fatto in vita tua?
Sposare Jenny, mi risponde.
E ora Jenny dov’è?
Jenny è alle Hawaii – finisce scolare il suo rum e poi ripete con aria mesta – Jenny è alle Hawaii.
Decido di non indagare. Ovunque sia e qualunque cosa faccia, Jenny non è lì con lui. E questo spiega molte cose. Ma non tutto. Continuo a chiedere. Non bisogna farsi problemi a chiedere, alla vita, alle persone, persino alle cose.
Hai figli?
Aggrotta la fronte, come se facesse fatica a ricordare. Sì, Leila, dice. Ma anche Leila non la vede più da una vita. Deve essere da qualche parte nel Wisconsin, si è fatta una vita e si sentono due volte l’anno. Per il Ringraziamento e per il compleanno di Tupec. Lei lo chiama Tupec, lui la chiama da telefoni fissi.
È questa la vita che volevi, Tupec?
Questa è la vita che voleva Elvis, mi risponde. Si è fatto tardi. Ha detto che va a dormire. Ma ha ancora molto da raccontarmi. Dice che lo farà tra due sere. Hotel Calipso, a soli dieci chilometri da Las Vegas. Ha un altro spettacolo. Gli dico che ci vediamo lì. Quando sta per salire le scale per andare su in camera, si volta, e nel silenzio della hall la sua voce quasi rimbomba.
Hai presente quella storia?
Quale storia?
Quella che dicono che Elvis non è morto. Che sta da qualche parte, su un’isola, insieme a tutti.
Ah, sì. La leggenda, faccio io.
No, è vero.
Cosa?, gli rispondo sorridendo.
È la parte dell’isola che è sbagliata. Non è lì fuori, lontano.
E dov’è?, gli faccio.
Non ha importanza dove -sale ancora due gradini, sparisce nel buio.
Poi dice: “Elvis è vivo. – ripete – Scrivi questo sul tuo pezzo. Elvis è vivo.”
Non ho più visto Tupec. Neanche due sere dopo, all’Hotel Calipso. Ho chiesto di lui, e nessuno sa dirmi nulla. Anche l’Hotel Cuori Infranti nega di aver mai ospitato un personaggio del genere. Il barista dell’hotel sostiene che sia frutto della mia fantasia o del rum. Ma questo non ha importanza. Tupec è morto. Elvis è vivo.