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“Emergenza” rifiuti in Campania: resistenza e memoria.

Creato il 19 giugno 2013 da Ilcasos @ilcasos

Intervista allo storico dell’ambiente Marco Armiero

Marco Armiero è uno studioso che da anni si occupa di storia ambientale, disciplina recente, nata negli Stati Uniti nel corso degli anni Settanta, ad oggi ancora poco conosciuta tanto all’interno quanto all’esterno dell’Università italiana. Attraverso la sua attività di ricerca Marco ha approfondito diverse tematiche, in particolar modo interessato alle relazioni esistenti tra natura/paesaggio e la costruzione della nazione, ed ai conflitti ambientali legati all’accesso alle risorse comuni. Nel 2006 ha curato l’edizione di Views from the South [1]raccolta di storie ambientali che vedono protagonista il bacino del Mediterraneo, e nel 2011 ha pubblicato A rugged Nation [2] (tra poco edita anche in italiano, da Carocci. Qui il link alla presentazione del libro organizzata dal Caso S.) primo tentativo di raccontare la storia d’Italia attraverso quella delle sue montagne. Nel 2004 inoltre ha pubblicato insieme a Stefania Barca il primo testo universitario dedicato a tracciare le origini e gli sviluppi della storia ambientale. [3]

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Copertina di Zapruder.Storie in Movimento, n° 30

“Nature does not dictate,but physical nature does, at any given time, set limits on what is humanly possible” scriveva nel 1985 Richard Withe, storico statunitense, così tracciando i confini della storia dell’ambiente, volta ad indagare su “the reciprocal influences of a changing nature and a changing society”. Nella stessa direzione si colloca il lavoro di ricerca di Marco, teso a cogliere, all’interno di determinati contesti storici sociali e politici, il rapporto di ibridazione tra quanto è rispettivamente concepito come naturale e come sociale. In particolar modo nell’ultimo numero della rivista Zapruder. Storie in movimento, sono le lotte per la giustizia ambientale, sviluppatesi nel corso del XX secolo, ad essere lente di ingrandimento per lo studio del legame tra ambiente e società. I movimenti contro i rifiuti in Campania, nati nel corso dell’ultimo ventennio – oggetto di quest’intervista e dell’ultima ricerca di Marco – si inscrivono nel panorama delineato dalla rivista, che affronta l’argomento in maniera inedita rispetto al panorama storiografico italiano. Il rapporto tra nord e sud Italia, lo studio di nuove dinamiche partecipative, il legame tra pubblico e privato, il problema della memoria, sono alcuni dei temi più importanti che emergono da questa densa chiacchierata, regalata da Marco al Caso S.

Le lotte contro i rifiuti in Campania vengono da te inquadrate all’interno di una prospettiva di Environmental Justice. L’EJ è sia un movimento, nato negli USA negli anni ‘80, che – come in questo caso – una prospettiva teorica, che afferma la diseguale ripartizione del rischio ambientale. Puoi parlarci dell’EJ e spiegare quali caratteristiche della lotta Campana ti hanno spinto ad adottare questo punto di vista?

L’EJ non è una categoria molto utilizzata in Italia, e neanche in Europa. Nasce negli Stati Uniti ed è molto legata alla stratificazione sociale e di classe presente in quel paese. Si parla di EJ quando una comunità di minoranza etnica diventa vittima di razzismo ambientale. […] Secondo il primo teorico che ha lavorato sull’EJ – Robert Bullard – tutto è cominciato alla fine degli anni ‘70 nella contea di Houston, in North Carolina, quando questa comunità a maggioranza afroamericana si oppone alla costruzione di una discarica di rifiuti pericolosi all’interno del suo territorio. Da lì cominciano una serie di studi e di ricerche, tra i quali è importante quella condotta da una chiesa protestante americana, che registra la possibilità di sovrapporre la mappa della distribuzione delle minoranze etniche del paese con la mappa dei luoghi più inquinati. Detto questo si capisce perché questa categoria è stata poco utilizzata in Italia e in Europa: la questione razziale che caratterizza gli Stati Uniti è molto meno caratterizzante la storia europea.

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Edizione italiana di “Environemntalism of the Poor” di J. Martinez-Alier

Altri studiosi invece, come Martinez Alier [4], hanno detto che questa è un’interpretazione parziale, e che non è varo che l’EJ sia solo negli Stati Uniti, ma che in realtà c’è una grande parte del mondo, quella che potremo definire il sud globale dove le lotte per la giustizia ambientale sono diffuse e hanno caratteristiche diverse, ma sotto certi aspetti simili, a quelle degli Stati Uniti. Detto questo, cosa ho provato a fare? Ho provato a capire se anche in Italia si potesse ragionare in termini di giustizia ambientale, cioé se è vero che sia in Campania che a Napoli la distribuzione dei costi ambientali, così come la distribuzione dei benefici, sia legata alla distribuzione della ricchezza. Io credo che su questo non ci sia dubbio. In Campania e a Napoli quello che si è fatto è targhettare comunità più povere e marginali, per diventare la discarica finale della questione rifiuti. Nel mio studio provo anche a fare un ragionamento più generale: capire cioé come la Campania, che è una delle regioni più povere in Italia, sia diventata anche la comunità marginale dal punto di vista nazionale: la sua posizione nel sistema produttivo, capitalista italiano, diventando la discarica finale della produzione industriale che avviene altrove, al centro e nord Italia. Ovviamente in Italia vale molto di più la questione di classe che non di razza, anche so ho provato anche a pensare a quante comunità etniche marginali paghino il prezzo di questi rifiuti: basti pensare ai Rom. Nel caso campano si tratta soprattutto del discorso di classe, che va fatto con un po’ di sale in zucca. Non in maniera semplice e semplicistica, ma intrecciando la categoria di classe con quella spaziale di marginalità. Essere marginali rispetto alla metropoli nazionale che è il centro nord, come essere marginali rispetto alla metropoli regionale che è Napoli, ha implicato, per queste comunità, di pagare un prezzo relativamente alto. Se si va a vedere dove hanno messo gli inceneritori e dove hanno messo le discariche si trovano comunità deboli, dove, come si dice in gergo, i poveri si vendono a basso costo. Appare certo più semplice aprire una discarica in un posto del genere che non in un quartiere ricco. Non so quanto lettori italiani sanno questa cosa, ma un po’ di anni fa il governo della California commissionò ad un’agenzia privata uno studio che chiedeva

“Dove possiamo mettere strutture di rifiuti in California senza avere troppi problemi?” Alla fine dello studio l’agenzia rispose di metterle in comunità con minoranze razziali molto forti, comunità povere, e via di seguito. Sarebbe stato semplice piegare la resistenza di queste comunità, non avrebbero avuto soldi per portare avanti cause, e sarebbero state più sensibili al ricatto, o al sogno del lavoro (in seguito agli impieghi creati dall’inceneritore). Credo quindi che parlare del caso campano nei termini di EJ sia non solo un esercizio utile a livello metodologico, ma che soprattutto significhi fare una fotografia della realtà. Significa dire che non stiamo solo cercando una soluzione tecnica migliore, ma stiamo anche dicendo che tecnologia, tecnica e saperi non sono neutri rispetto ai loro fini sociali, e che bisogna prendere posizioni. Vogliamo risolvere la questione dei rifiuti in ogni modo possibile o vogliamo pensare a una soluzione socialmente equa?

Alla questioni che tu sollevi, quella della non neutralità della scienza, si collega la relazione tra democrazia e tutela ambientale. Alcuni pensano che solo l’intervento di esperti possa essere efficace per la tutela dell’ambiente, altri che la strategia vincente stia in una gestione democratica delle risorse comuni. Questo mi sembra un nodo centrale di molte lotte per l’ambiente, il caso NoTav ne è un esempio, come la più recente vicenda che vede protagonista l’Ilva di Taranto. Le lotte contro i rifiuti come si collocano in questo dibattito? Qual è rispettivamente il ruolo di esperti, istituzioni, e società civile?

Sì, questa è un po’ la madre di tutte le questioni quando si ha a che fare con l’ambientalismo e con le questioni di politica ambientale. Al punto che tanti anni fa una storica, Anna Bramwell, addirittura ritrovava una matrice di destra profonda nell’ambientalismo[5]. Lei addirittura collegava la culture ambientaliste al nazismo e in genere alle culture autoritarie. In seguito tanti storici e storiche hanno dimostrato che Anna Bramwell sbagliava. Oggi io credo che la sfida sia ragionare sul nesso tra ambiente e democrazia. Innanzitutto io credo che una questione chiave sia provare a superare la dicotomia tra società e natura. Questa è una delle caratteristiche del movimento dell’EJ tanto nel sud globale che negli Stati Uniti. Uno degli slogan più belli del movimento dell’EJ degli Stati Uniti è quello che dice “La natura è dove noi viviamo, lavoriamo, studiamo, preghiamo”. Con questo si vuole dire che la natura non sta da un’altra parte, in un luogo che noi raggiungiamo il fine settimana per respirare aria buona. La natura è il luogo in cui vivi.

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Stabilimento Ilva a Taranto

Perché questo è collegato? Perché se noi ragioniamo secondo una logica binaria pensiamo che la natura sia uno spazio altro, che richiede interventi e decisioni altre rispetto all’ordinario, classificando l’ambiente come lo spazio di intervento dell’expertise. Ai compagni e alle compagne della Campania che lottano contro il piano emergenziale si continua a ripetere “ma che cosa ne sapete voi? Diamo la parola agli esperti, ingegneri, chimici, medici”. L’ultimo rapporto del ministero della salute, il rapporto SENTIERI, dice che non c’è un pericolo della salute in Campania. L’unico problema, se ci sono delle differenze di mortalità o di malattia in Campania, sarebbero legati agli stili di vita, alla dieta, al fumo… Allora, qual è il tema? Il tema è che quando superiamo la dicotomia binaria ci riappropriamo delle natura. L’ambiente diventa uno spazio non più festivo, ma feriale. Gli attivisti campani, come gli attivisti NO TAV, come a Taranto, ugualmente rivendicano la possibilità di dire la propria sul destino dei territorio in cui si vive. Ci tengo a parlare di movimentI, al plurale: non credo esista un movimento campano, figuriamoci un movimento italiano per la giustizia ambientale. Ci sono mille movimenti, quella di essere diffusi e legati a singole realtà locali (grassroots) è una loro caratteristica costitutiva. Quindi ci sono quello di Pianura, di Giugliano o di Chiaiano. Non voglio neanche nascondere che talvolta questi comitati hanno posizioni diverse, talvolta sono anche in conflitto tra di loro. Io non credo che questi movimenti (Campano, NO TAV…) attacchino frontalmente la scienza, non credo che siano anti scientifici: al contrario c’è una grandissima attenzione alla scienza, ai saperi, agli esperti. Fanno quello che Boaventura de Sousa Santos, sociologo portoghese, chiama ecologia dei saperi [6]. Con questo cosa vuole dire? Che la scienza non è una, ma ce ne sono tante. Talvolta mi sono divertito a scrivere che per un medico che dice che gli inceneritori fanno bene alla salute ce n’è sicuramente uno contrario, che li ritiene estremamente pericolosi. Così è la storia della TAV, per cui ci sono stati un centinaio di studiosi e studiose dell’Università italiana che hanno firmato un documento in cui sottolineavano gli aspetti di sistema che non funzionavano nel ragionamento che vede l’utilità del treno alta velocità in Val di Susa. Quindi da una parte c’è la sperimentazione e lo sfruttamento dell’ecologia dei saperi, per inserirsi nel dibattito scientifico come un agente di trasformazione da parte dei movimenti.

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In secondo luogo, io credo che ci sia anche qualcosa di più. Un sociologo americano ha scritto un libro intitolato Street Science [7] parlando di un sapere che nasce dentro i movimenti, tra gli attivisti, interrogando i saperi ufficiali. Nel caso della Campania questo è molto forte: sono stati gli attivisti e le attiviste a mettere per primi l’accento sul fatto che la questione campana non fosse esclusivamente una questione di sacchetti di immondizia per strada. Molto spesso tutta la logica emergenziale ha voluto limitare l’attenzione alla questione dei rifiuti per strada, mentre in realtà c’è tutto un problema di rifiuti tossici, profondamente legati al sistema delle discariche legali e illegali, che rimanda al grosso tema della relazione con la salute. Il sapere attivista è un sapere che spesso matura attraverso le storie, attraverso il racconto: questa è una cosa che da storico mi interessa molto. Per definizione è un sapere individuale. Tuttavia individuale non vuol dire individualistico, intrasmittibile. Faccio un esempio, che riguarda le cartelle cliniche. Penso al movimento di Pianura, dove si voleva riaprire una discarica che è stata in funzione per 50 anni, ingoiando qualsiasi tipo di rifiuto tossico… Tra le iniziative dei cittadini di Pianura sta la raccolte di molte cartelle cliniche, consegnate a un pm, per iniziare un procedimento di disastro colposo. Perché questo esempio? Perché la cartella clinica rappresenta uno spazio ibrido, a metà tra il personale e il pubblico, tra lo scientifico e la sfera individuale. È chiaro che non è esattamente un racconto, una storia di vita, come nelle interviste che ho fatto io, però sono ugualmente dati strettamente personali, intimi. Io non divido facilmente la mia cartella clinica con tutti. Qui c’è la decisione invece di mettere in comune una cosa strettamente personale, in cui il ruolo della scienza è forte: sono cartella con tanto di firma e timbro di primari e strutture ospedaliere. Cosa voglio dire? Che non c’è un rifiuto della scienza o del sapere mainstream, ma c’è il tentativo di provare ad infilarsi nelle maglie di questo sistema e provare a farne una battaglia politica. Una cosa mi sembra certa: quello che emerge da tutto questo è che la scienza, e la tecnologia, sono politica. E non è politica perché gli attivisti e le attiviste l’hanno politicizzata, ma è politica in sé. Gli attivisti hanno piuttosto cercato di inserirsi in questa politicità per condurre la loro battaglia. Si rimanda anche a una diversa idea di ambientalismo. Negli anni ‘70 Virginio Bettini scriveva un bellissimo saggio che si intitolava Ecologia di potere, ecologia di classe e io credo che possano ancora valere quelle osservazioni, che esprimevano la possibilità che l’ambientalismo sia un ambientalismo di classe, che difenda i diritti delle lavoratrici, dei lavoratori, e delle classi subalterne. Un altro esempio ancora è Porto Marghera: una questione legata all’operaio, al singolo, ma ugualmente una questione privata che diventa pubblica. E secondo me questo legame tra il personale e il politico è uno dei filoni interessanti, su cui si dovrebbe ragionare. È un filone di lungo periodo che attraversa le sinistre alternative in Italia, nonché il movimento femminista. Sarebbe curioso ricostruire le genealogie in questo senso.

Vorrei riprendere proprio il legame tra pubblico e privato che tu evochi, riassunto dall’immagine delle cartelle cliniche, per collegarmi alla questione della sindrome NIMBY (Not in my back yard) Molte lotte ambientali, come quella campana, sono spesso state etichettate con la sigla NIMBY, e con questo ridotte a proteste localistiche e localizzate, che si contrappongono all’interesse collettivo, limitandolo. Ora mi sembra che quanto tu hai appena spiegato ben evidenzi come queste proteste, in particolare quella campana, sollevino delle questioni il cui interesse non è affatto circoscritto, ma di carattere nazionale, e sovranazionale. 

Quella della sindrome NIMBY è una delle cose che continuamente mi chiedono, mi ripetono, mi criticano, quando parlo di queste vicende campane. Proverò ad arrischiarmi. La prima cosa che vorrei dire, e spero di spiegarmi bene è: cosa c’è di male nella sindrome NIMBY? Provo a spiegarmi meglio: quando ti vogliono stuprare tu non sei tenuto a presentare un programma alternativo allo stupro. Gli dici no, e se possibile gli dai anche una bastonata in testa. Cosa si vuole dire quindi? Che è normale che se provano a stuprare la tua comunità e il tuo territorio tu dici no. Questa idea che il no debba essere espunto dal nostro dizionario politico è un’idea di questi tempi tardo neoliberisti, per cui ci vuole sempre il piano alternativo. Il no è un vocabolo potente di cui ci dobbiamo riappropriare. È di nuovo Boaventura de Sousa Santos a dire qualcosa di importante a proposito, ovvero che dire no, significa sempre dire si a qualche altra cosa. Questa è una cosa importante che va ricordata. Bisogna liberarsi da questo senso di inferiorità rispetto a chi ci dice che siamo quelli del no, che dire no è facile. Io credo che dire no sia difficilissimo. Mettiti nei panni di quelli del NO TAV, accusati di essere anarcoinsurrezionalisti, terroristi e non so che altro. A proposito della Campania ricordo che Merlo sulle pagine di Repubblica parlò di “rigurgiti primitivisti”. Ovviamente la causa dei rifiuti Campani non è che ci fosse la camorra, o politici corrotti, ma i poveri pianuresi che rifiutarono di nuovo la discarica. Dire no, quindi non è facile.
Detto questo, io credo, come dicevi tu, che queste non sono solo e sempre sindromi NIMBY. Innanzitutto come tu dicevi prima, in realtà mettono in discussione il sistema. Per esempio il sistema di costruzione del sapere e di legittimazione del sapere. Che cosa e chi parla e a nome di chi. Mettono in discussione un sistema di consumo e un sistema di produzione. Quando i movimenti campani posero il problema di limitare a monte la produzione di rifiuti tossici, credo che posero un problema che va al di là della discarica sotto casa. Quando fanno un ragionamento che è quello del principio di precauzione preventiva, che dice che comunque in presenza di un dubbio è meglio applicare una precauzione preventiva, che non ci porti a rischiare per le persone e per l’ambiente, che poi è la stessa cosa, credo venga messo in discussione l’intero sistema di produzione, consumo e smaltimento. Ci sono poi delle cose più concrete che potrei qui citare. I movimenti campani hanno firmato il patto di mutuo soccorso con le altre comunità resistenti in Italia. E poi anche a livello territoriale ci sono moltissime alleanze, sono state formate varie coalizioni: c’è il CO.RE.RI (Comitato Regionale Rifiuti), c’è la rete Commons, e via dicendo. Devo dire che io ho ricevuto anche le mie lezioni da questi attivisti. Qualche tempo fa ho intervistato un’attivista, Mena, chiedendole come si fosse interessata alla questione dei rifiuti. Lei mi sgridò, dicendo “Non ci siamo capiti, io non sono un’attivista dei rifiuti, ma un’attivista dei beni comuni” Mi ha molto colpito, perché ero partito con un’idea limitata e ristretta di cosa fosse questo attivismo e Mena mi ha dato una lezione.

Insieme a Simone Maurano stai promuovendo un progetto archivistico di raccolta delle testimonianze di quanti hanno partecipato alla lotta contro i rifiuti. Che ruolo ha la storia orale nella tua ricerca? Ci puoi parlare dell’archivio di storia orale che state costruendo?

Sì. Innanzitutto una precisazione: questo archivio sulla conflittualità ecologica nasce da una serie di interviste, ad attiviste e attivisti, che mi sono messo a fare io. Poi ho cercato di rendere collettivo questo progetto, di coinvolgere altri, quindi ora ci sono Giacomo Dalisa, Simone Maurano, ci sono io, si sono aggiunti Salvatore e Paolo DeRosa ed altri… Per il momento si tratta soprattutto di progetti individuali che hanno fatto rete. C’è un sito in cui tu puoi trovare l’indicazione di tutti noi che ne facciamo parte, che abbiamo deciso di mettere in comune i nostri progetti individuali.
Questa ricerca nasce come un progetto di storia orale. Se vuoi lavorare sui movimenti di EJ in Campania, e sono sicuro sarebbe lo stesso per Taranto, Val di Susa e Porto Marghera, devi fare riferimento alle storie orali. Non troverai nessuna fonte che ti possa aiutare, dentro le fonti ufficiali. Una piccola eccezione fanno le fonti di tipo giudiziario: l’ultimo articolo che ho scritto sulla lotta Campana riguarda il processo dopo i fatti di Pianura. Non so se chi legge ricorda, ma tra il 2007 e il 2008 a Pianura c’è stata una grandissima rivolta urbana contro la riapertura della discarica. Le fonti giudiziarie, come risulta chiaro dalle ricerche fatte dai più grandi storici sociali, fanno quindi eccezione. Io ho raccolto queste interviste con l’idea che potessero restituire la verità individuale di questo movimento, ho provato a dare voce agli attivisti e alle attiviste campani. Anche questo è uno slogan del movimenti americani di EJ: c’è uno slogan che dice “Noi parliamo per noi, non facciamo parlare altri in nostra vece”. Questo è quello che ho cercato di fare io. In realtà avevo uno schema, dei punti che intendevo toccare, tra cui la biografia personale di chi stavo intervistando e la sua storia politica. Ero molto interessato alla comprensione di genealogie, e legami rispetto a ciò che c’era intorno. In Italia sarebbe assurdo non ragionare sui rapporti tra ambientalismo subalterno e movimento operaio comunista, e delle sinistre organizzate del nostro paese. Come negli USA invece si ragiona sul Movimento dei diritti civili, sulle Chiese protestanti. Quindi un altro tema che mi interessava toccare è quello della vita interna del movimento. Checché se ne dica, io non sono un celebratore di questo movimento, quello che ho provato a fare è raccontare il dentro, capire come funzionano questi movimenti dall’interno. Per esempio a me sembra che ci siano tanti problemi in relazione alla democrazia interna, e che ci siano tanti problemi relativi al rapporto tra generi e generazioni. Mi interessavano le pratiche, il repertorio di mobilitazione. Alla fine queste interviste sono diventate delle storie di vita: alcune molto belle, perché l’interlocutrice ha deciso di condividere con me la sua storia, altre magari più scarne… Ma soprattutto sono state caratterizzate da una grandissima libertà.
Ho cercato di intervistare diversi attori: gli attivisti, gli esperti, e i politici. In realtà non nego che la cosa ha funzionato male: gli attivisti hanno aperto le loro porte, molti esperti sono stati ugualmente disponibili, ma pochissimi politici. Quindi è diventato un archivio con un forte focus sull’attivismo e l’expertise.

All’interno della tua ricerca dedichi molta attenzione all’analisi del lessico utilizzato tanto dai media, quanto dal mondo politico, per descrivere il disastro dei rifiuti. Quali sono le conseguenze di una precisa scelta lessicale che chiama “emergenza” una situazione che si protrae da ormai vent’anni? 

rete commons
Diciamo che la vicenda campana è una vicenda segnata dal paradigma dell’emergenza. Nel 1994, se non ricordo male, il governo nazionale proclama lo stato di emergenza in Campania per l’emergenza rifiuti, e crea un agenzia ad hoc che è appunto il Commissariato di governo per l’emergenza rifiuti in Campania. Ora con i militanti, io non sono il primo e non sarò l’ultimo, ho ironizzato e scherzato molto: certo se cerchi sul dizionario il significato di emergenza tutto puoi trovare al di fuori che una cosa che dura da una ventina d’anni.
A parte questo, quello che ho provato a fare con Giacomo Dalisa, pubblicando un articolo su Capitalism, Nature and Socialim, (la rivista degli ecomarxisti americani), è parlare del concetto di emergenza come di un concetto chiave, che mette insieme retorica, narrativa, strumenti legislativi ed economici. La narrativa sull’emergenza ha significato diverse cose: che non c’è tempo da perdere in discussioni democratiche, che ci vuole un decisore, e che si potesse soprassedere sulle norme “normali”. Io credo che in concreto questo ha significato una sciagura per la situazione campana, perché ha implicato una concentrazione di potere straordinaria nelle mani del commissariato di governo, concentrazione di risorse economiche spropositata – la Corte dei Conti ha più volte denunciato lo sperpero di denaro pubblico avvenuto in Campania, senza nessun controllo – Ti faccio solo un esempio: sull’inceneritore di Acerra praticamente non è stata fatta la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale). Se leggi i verbali della commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, in parlamento, leggi le parole di questo signore che ti spiega che non è stata fatta esattamente una VIA, perché l’inceneritore era una scelta acquisita. Ma la logica emergenziale, io penso, ha significato anche far accettare tantissime soluzioni difficilmente digeribili dalle comunità locali: l’idea che fossimo continuamente in una emergenza continua, significava che bisognava riaprire la discarica di Pianura, e poi di Chiaiano… In effetti secondo l’ipotesi accusatoria di alcuni pm della procura di Napoli, questi picchi di emergenza sarebbero addirittura stati creati ad arte, proprio per costringere le amministrazioni, le comunità e via di seguito, ad accettare qualsiasi decisione. Come saprai, una delle cose pazzesche di questa crisi è che c’è stata una privatizzazione della scelta politica, basti pensare che il contratto prevedeva la possibilità per l’impresa appaltatrice di scegliere dove fare l’inceneritore. Quindi la completa abdicazione dei poteri decisionali della politica all’impresa privata. Credo però che il tema dell’emergenza abbia anche un potere di natura retorica: ha mobilitato un discorso sulla Campania che ha poi comportato la criminalizzazione dei movimenti. Se ti leggi la stampa sulla Campania, la parola infiltrazione, invece di essere una parola che ha a che fare con il percolato e con le infiltrazioni dei rifiuti tossici, è diventata una caratteristica dei movimenti. Si è parlato di infiltrazioni camorristiche dentro i movimenti, oppure di infiltrazioni politiche: ricordo Berlusconi in una conferenza stampa a Napoli dire che chi protesta è gente che fa questo per mestiere. O ancora, la parola termovalorizzatore, al posto di inceneritore, propone l’idea di una macchina magica che trasforma rifiuti in energia. Questa riflessione sullo stato di emergenza si ricollega alla riflessione sullo stato di eccezione, e ancora di più all’ipotesi di Naomi Klein della shok doctrine [8]. A me e a Giacomo sembra davvero che in termini di profitti si sia provato davvero a utilizzare l’emergenza Campana come una shock doctrine, costringendo le comunità – soprattutto a suon di manganelli – ad accettare un’iniqua distribuzione di costi e benefici ambientali.
Quando mi trovavo a parlare con la “Napoli bene” tutta scandalizzata dai moti urbani, io dicevo di non essere contrario agli inceneritori in sé, ma a patto che fossero costruiti a Posillipo. L’inceneritore a loro andava bene solo se si metteva ad Acerra. Perché ho usato la categoria di EJ? Perché queste sono cose da manuale. In Campania è successo un sacco di volte che il commissariato provasse ad aprire strutture relative ai rifiuti in zone già profondamente segnate dall’inquinamento. Questo è proprio quello che dice R. Bullard a proposito di EJ: quella che viene scelta è la strada di resistenza minore. In certe zone, come si va poi a dimostrare che è l’inceneritore che fa ammalare, e non la fabbrica costruita dieci anni prima? Questo è un tema importante, perché la responsabilità dell’esibizione della prova sta sulle spalle di chi è contaminato. Mi spiego: non è la discarica di Pianura che deve dimostrare di non aver causato cancro, è la gente che è ammalata che deve dimostrare il legame di causalità.
Infine, rispetto al discorso di Naomi Klein, vorrei fare un ultimo accenno. Nel documentario tratto dal libro (nota) lei dice una cosa molto bella, cioè che quando una comunità è sotto shock, lo è non solo perché è stata colpita da un certo tipo di politica, o da un’aggressione, ma anche perché le hanno tolto la memoria. Io con il mio progetto ho provato a fare anche questo, seguendo l’idea che l’esercizio della memoria sia una forma di resistenza. Sono molto orgoglioso perché gli attivisti, che spesso invitano tecnici, esperti, e quant’altro una volta invitarono a parlare anche me, proprio a proposito del movimento dell’ EJ e del loro movimento stesso. Mi hanno insomma dato il ruolo dello storico dell’ambiente, del quale sono molto orgoglioso. E così l’estate scorsa ero a Chiaiano in occasione di un pranzo sociale, e uno degli attivisti mi presentò in modo inaspettato, dicendo: “Questo è Marco…” e io mi credevo aggiungesse che sono ricercatore al CNR, e cose simili, invece disse solo “come vi posso spiegare chi è Marco… Immaginatevi, che uno si sbatte, si fa il culo, dalla mattina alla sera, contro gli inceneritori, per l’ambiente. Poi un giorno arriva questo tizio, dall’America, e ti dice chi sei” Io credo fosse una buona presentazione.

Note   (↵ returns to text)
  1. Marco Armiero (a cura di), Views from the South: environmental stories from the Mediterranean world (19th-20th centuries), CNR-Servizio Pubblicazioni, 2006.↵
  2. Marco Amriero, A rugged nation. Mountains and the Making of Modern Italy, White Horse Press, 2011.↵
  3.  Marco Armiero, Stefania Barca, Storia dell’ambiente. Un’introduzione, Carocci, 2004.↵
  4. Martinez Alier, The Environmentalism of the Poor: A Study of Ecological Conflicts and Valuation, Edward Elgar Publishin, 2003.↵
  5. Anna Bramwell, Ecologia e società nella Germania nazista, Luigi Reverdito Editore, 1988.↵
  6. Bonaventura de Sousa Santos, Beyond abyssal thinking: From global lines to ecologies of knowledges, Review 30(1), pp. 45-89.↵
  7. Jason Corburn, Street Science: Community Knowledge and Environmental Health Justice (Urban and Industrial Environments), The MIT Press, 2005.↵
  8. Naomi Klein, The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism Picador, 2008.↵
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