Fonte: L’ Occidentale
Emil Cioran, lucidissimo pensatore e filosofo romeno, amico di Mircea Eliade [n.b. storico delle religioni] e Eugène Ionesco e componente con questi suoi connazionali di una triade culturale del Novecento di spicco internazionale, scomparve nel 1995 a Parigi. “Barbaro dei Carpazi”, come si definì egli stesso, riferendosi ad un carattere ed a una forma dell’espressione congeniti che gli si imprimevano nel pensiero e nella scrittura, mescolandosi peraltro ad una forza poetica superiore, straordinaria, emigrò in Francia nel 1937, all’età di 26 anni, vincitore di una borsa di studio dell’Università di Bucarest per un dottorato in filosofia.
Ma non fu mai frequentatore a Parigi dei salotti degli intellettuali. Convisse e condivise piuttosto il destino di una società a margine: degli studenti universitari, studente egli stesso e senza progetti di vita che non fossero quelli della lettura e della scrittura; dei barboni, che stimava in quanto esonerati dalla storia e dalle follie del progresso; delle prostitute che ebbe come coinquiline dei palazzi degradati dove abitò, e la cui figura emerge dalle sue pagine come modello di vita e di pensiero, per il loro “pirronismo da marciapiede”, per il “sorriso stanco” e per l’ “amarezza” rispetto al mercato che è il mondo, per essere “le creature meno dogmatiche” che “accettano tutto e rifiutano tutto”, che “sono distaccate da tutto e aperte a tutto”.
La sua opera ci viene restituita oggi in italiano dall’editore Adelphi. Dai suoi libri più importanti, in cui pure qualcuno vi ha ravvisato la miglior prosa francese del Novecento, come “La chute dans le temps”, “Précis de décomposition“, “Histoire et utopie”, “Le mauvais démiurge”, “De l’incovénient d’être né“, “Écartèlement”, “Syllogismes de l’amertume“, “Des larmes et des saints“, “Exercices d’admiration”, emerge il ritratto di un filosofo radicalmente pessimista, eppure corroborante con i suoi lancinanti aforismi, un ilare nichilista, un dissacratore esultante nella sua implacabile furia corrosiva della metafisica, dei valori, degli ideali e di tutto il bagaglio storico e culturale del nostro piccolo pianeta. Perché così gli appariva il nostro mondo: un insignificante pezzo di “materia tetra”, una “lacrima pietrificata” caduta dal “primo fremito di Dio” contro la quale i nostri umani pianti non possono nulla e si infrangono inascoltati. Così gli appariva in una pagina di quel Sommario di decomposizione intitolata In una delle mansarde della Terra.
Era appunto questo il punto di vista da cui Cioran ha guardato il mondo in tutti i suoi scritti: egli osservava dall’alto della sua “mansarda” sovrastorica e metatemporale, anzi sotto-temporale avrebbe detto lui che predicava e auspicava per tutta l’umanità, vittima già della Caduta e della perdita dell’Eden, una nuova risolutiva ed ora infernale caduta in una eternità inferiore, dove necessariamente doveva arenarsi sfinito ed inane il “disormeggio” che è la storia. Caduti nel tempo, egli ci vedeva destinati a cadere anche dal tempo, liberati per sempre dalla maledizione del divenire, ma non per questo redenti e salvati, ed anzi rinchiusi ora in un paradiso rovesciato, un giardino sinistro e spaventevole, disabitato da Dio, nel quale si conclude miseramente la storia e il suo male.
Questo suo distacco dal mondo, dalla storia che contemplava da lontano, con disincanto atarassico, costituisce la cifra di una “lucidità” disincarnata e totalmente altra dalla “coscienza” hegeliana intrinseca invece alla dialettica dello spirito e del processo storico: “dentro al cerchio che rinchiude gli esseri umani in una comunione di interessi e speranze, lo spirito nemico dei miraggi si apre una strada dal centro verso la periferia. Non può più udire da vicino il brulichio degli uomini: vuole guardare da più lontano possibile la simmetria maledetta che li collega”. Il suo occhio rapace ci ha scrutato dall’alto come quello di Albert Caraco, per ricordare un suo ideale consanguineo novecentesco con cui pure è stato confrontato; e tuttavia Cioran è meno cupo, meno freddo, più mescolato alla vita, più attaccato allo scheletro e alla carne ai quali era incatenato peraltro da un’insonnia cronica che solo con la terapia della scrittura cercò di esorcizzare nelle lunghe, e profonde, notti di veglia. E se Caraco si suicidò programmaticamente, Cioran non vi riuscì mai, e anzi confidò una volta a Costantin Noïca: “ascolta, non parlarne a nessuno, ma io amo molto la vita”.
Nichilista, o meglio pessimista, per usare un termine più vicino e familiare, più leopardiano diciamo… di quel Leopardi che egli pure amava e conosceva (Cioran è prefatore d’eccezione di un saggio del corrispondente e amico Mario Andrea Rigoni su Leopardi), Cioran è stato definito anche uno gnostico, per le sue riflessioni intorno a Dio, alla Caduta, al Demiurgo, al Tempo ed altri. Amava la filosofia orientale e la cultura gnostica antica appunto. Squartamento si apre con una “favola di origine gnostica” nella quale si narra degli Angeli di Michele che battagliarono contro quelli del Drago e di quelli che, rimanendo invece irresoluti e non decidendosi per nessuno schieramento, furono cacciati dal Regno Celeste: di qui, di nuovo, la Storia, intesa come perdita tragica di un’unità inenarrabile e immemorabile che dovette precederla.
Forse lontane immagini degli Angeli e degli Arcangeli armati di spada quali si vedono affrescati nelle Chiese cristiano-ortodosse della sua amata Romania, magari della piccola chiesa di Răşinari, il piccolo villaggio dov’era nato e che costituiva per lui il paradiso personale e perduto della sua infanzia, o le visioni suscitate dalle letture del padre, un prete ortodosso, dovevano essergli rimaste scolpite nella memoria. Ad ogni modo uno gnostico negativo, un demolitore, un distruttore. Un Angelo sterminatore, secondo Fernando Savater. Un incendiario. Non possedeva in casa una biblioteca ben ordinata, ma un cumulo disordinato di carte e di libri sparsi per tutta la stanza e “pronti per il rogo”, ha scritto Friedgard Thoma, sua biografa e intima amica. E tuttavia i roghi con cui egli brucia tutto l’Occidente e la sua cultura non sono i roghi dell’Inquisizione o del Nazismo. La sua penna, deliziosa e terribile in uno, è pur sempre quella di un intellettuale geniale, anche se gli piaceva dire di aspirare all’idiozia, alla vacuità dell’ebetudine, il cui gesto creativo e la cui eredità vanno cercati dunque nella stessa pars destruens del suo discorso.
Allora, Cioran può essere letto senz’altro come pensatore della crisi, anzi della fine, o dell’Apocalisse meglio ancora, un pensatore del frammento, maestro dell’aforisma, un filosofo asistematico con le stigmate del post-moderno se si vuole, incapace di elevarsi al sistema, ad una visione compiuta, ad una nuova e rinnovata intuizione del mondo. Ma il più profondo significato storico che egli adempie con la sua opera è quello appunto di annunciare la fine di tutti i sistemi e di tutte le visioni del mondo, o addirittura la fine della storia del pensiero o della storia tout court come ha osservato Rigoni.
In sé stessa ogni idea è neutra, o dovrebbe esserlo; ma l’uomo la anima, vi proietta i propri ardori e le proprie follie; impura, trasformata in convinzione, essa si inserisce nel tempo, assume forma di evento: il passaggio dalla logica all’epilessia è compiuto… Nascono così le ideologie, le dottrine e le farse cruente”: con chiaroveggenza, nel 1949, allorché scrisse questa pagina con cui si apre il Sommario, Cioran intravedeva già il tracollo, tremendo e grottesco insieme, di tutte le ideologie, di destra e di sinistra, come chi ne intuisse segretamente la logica inafferrabile e profonda del fallimento: “mi si indichi una sola cosa quaggiù che, cominciata bene, non sia finita male”.
Alla fine dell’età delle ideologie, od anzi al termine della lunga “sfilata di falsi Assoluti” che è la storia intera, Cioran ci ritorna come l’Anti-profeta che abiura tutte le Verità, rivelate o terrene. In una pagina del Sommario intitolata, appunto, L’Antiprofeta, egli sa che…
…gli uomini “idolatri per istinto” sono pronti a trasformare in “Incondizionato” gli oggetti dei loro sogni e dei loro interessi, a costringere gli altri sulla propria strada, a sterminarli se si rifiutano, ad innalzare templi a dei pretesti, e la loro capacità di adorazione è responsabile di tutti i loro crimini: “in ciascuno di noi sonnecchia un profeta…. quando si sveglia c’è un po’ più di male al mondo”.
Ma questa sua denuncia è anche un congedo, inevitabile e definitivo, dalla comunità degli uomini, se non addirittura dall’umana natura: “dopo aver ucciso in me il profeta”, si chiede Cioran, “come potrei avere ancora un posto tra gli uomini?”.
E’ proprio in questa solitudine, in questo rifiuto di aderire a vecchie e nuove verità o, peggio, di costruire nuove architetture del pensiero, che si ritrova anche l’attualità di questo anti-profeta. Perché, al di là del suo radicale pessimismo, e anzi forse proprio attraverso di esso, la sua pagina trasmette, assieme alla forte esigenza di liberazione dal mondo, dalla storia, dai suoi fardelli, dal peso stesso dell’esistenza, ed anche per questo stesso, un forte senso di libertà:
Mi basta sentire qualcuno parlar sinceramente di ideale, di avvenire, di filosofia, sentirlo dire ‘noi’ con tono risoluto, invocare gli ‘altri’ e ritenersene l’interprete, perché io lo consideri mio nemico”.
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