“En busca del sonido del viento” è uno di quei progetti a cui, per qualche motivo insondabile, il grande pubblico non ha attribuito il giusto valore. Strano. Soprattutto se si pensa che a editarlo – a volerlo, più che altro, e volerlo fortemente – è stata la Sony. Una delle etichette più mainstream che esistono. Una di quelle che, quanto a obiettivi commerciali, non sbagliano il colpo quasi mai.
Eppure.
Mi dicono, e l'ho visto coi miei occhi, che quei dvd di splendida fattura sono sempre più difficili da rintracciare nei negozi di Spagna. Forse, abituati ai prezzi che da straniera considero irrisori, quella ventina d'euro pare poco giustificabile. O magari li confonde l'incapacità di incasellarli dentro a una categoria specifica, chissà. Chè in fondo non sono documentari di viaggio, anche se il loro intento è far conoscere culture. E non sono nemmeno concerti, per quanto mostrino della gente che suona. Forse, semplicemente, neanche un collosso come la Sony riesce a trovare appoggi sufficienti, quando la causa vale la pena davvero. Resta il fatto che En Busca del Sonido del Viento vanta una regia impeccabile (Nahuel Lerena è sempre Nahuel Lerena!). Un packaging da amanti dell'oggettistica. In formato A4. Con un laccio vintage a stringere un libro su cui foto, disegni e testi si compongono a formare un vero e proprio diario di bordo. Ecco, magari confonde anche questo: è un libro o un video? La gente guarda sempre con sospetto tutto ció che non sa definire. Ma, soprattutto, En Busca del Sonido del Viento vanta la base di un'idea a dir poco geniale. Quella che doveva essere inizialmente una trilogia, e che almeno per il momento si limita invece a due soli esemplari, unisce di volta in volta cinque musicisti provenienti da Paesi diversi. Facce note. Affermate. Emblemi di generi distinti che, però, rimangono pur sempre emblemi. Tutti vengono spediti, dall'alto del loro status symbol, in qualche Paese dell'America Latina, a conoscere culture indigene a rischio di estinzione. Persone che vivono in capanne sperdute col tetto cosparso di ragni. O, magari, su di una montagna, appartate dalla civiltà occidentale. Si tratta per lo più di gente povera. Emarginata. Ignorata dal Governo e dalle autorità. Di piccole comunità le cui visioni della vita, società e valori, in quasi nulla coincidono con quelle a cui siamo abituati noi. Dall'incontro tra realtà così diverse nascono dibattiti e conversazioni quanto mai interessanti che, in fase di montaggio, si intervallano all'esecuzione live di alcuni tra i brani più conosciuti dei musicisti protagonisti. Canzoni la cui essenza si modifica, lontano dai palchi, dalle luci e dagli amplificatori. Brani suonati col solo ausilio di una chitarra, nella cornice della natura più selvaggia. Collaborazioni che nascono inaspettate, davanti agli occhi umidi di qualche donna che neanche sa chi sono i Rolling Stones. Entusiasta del primo episodio, ieri ho finalmente inserito il secondo dvd nel lettore del salotto. E, se devo essere sincera, m'è piaciuto un po' meno. Forse ha a che vedere con il carattere stesso dei Mapuche, la comunità indigena al centro di questo secondo viaggio argentino. Gli occhi bassi, si sa, non facilitano mai un dialogo. Così, tutto m'è sembrato più forzato. Meno naturale. I musicisti stessi non sembravano a proprio agio come i cinque fortunati della prima “missione”. Mancava, per capirci, un Neto García che facesse facce buffe su di un pullman. Un (e va bene, cedo) Dani Martín che quasi litiga con Ana Cañas nell'incarnazione del conflitto tra idealismo e concretezza. Una Natalia Lafourcade al centro di un'alleanza al femminile. Ci mancava un po' di vita, tutto qua. Di vita vera. Dove con “vera” intendo spontanea. Nei suoi alti, nei suoi bassi, nei peró.E tuttavia, se escludiamo proprio Dani Martín, questo secondo episodio mi é piaciuto piú del primo per la scelta musicale. Oltre alla stupenda versione corale di “Eres Para Mí” di Julieta Venegas (che non a caso fa da sottotitolo), ho scoperto Luna Nueva di India Martinez e ripreso ad adorare GiraLuna dei Sidonie. Ve le riporto tutte e due di fila. Ed é un augurio al buon ascolto, certo. Ma anche un invito ad apprezzarlo, nella vita, quello che non sapete definire. Ché alla fin fine sono quasi sempre le cose indefinibili a rivelarsi in ogni senso le migliori.
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