di Angela Molteni
Il caso Mattei, un film di Francesco Rosi
«La luna… chissà se ci sarà il petrolio anche lì…» è la frase che
il regista Francesco Rosi mette in bocca a Enrico Mattei negli ultimi
minuti di vita del Presidente dell’ENI, la sera del 27 ottobre 1962
mentre il suo aereo sorvola le campagne pavesi ed è in prossimità
dell’aeroporto milanese di Linate sotto una diffusa turbolenza che
insieme al destino già per lui predisposto segneranno la sua drammatica
scomparsa.
Ho rivisto a distanza di oltre trentacinque anni da quando fu
realizzato Il caso Mattei, un esempio di film-inchiesta tra i più intelligenti
e documentati, secondo soltanto a mio parere a Le mani
sulla città dello stesso Rosi. La forza del film consiste, ancora oggi,
nel suscitare dibattito sulla morte e sulla vita del “personaggio
Mattei”, coinvolgendo l’opinione pubblica su argomenti del tutto insoliti
per uno spettacolo, quali l’assetto e il destino economico di
un Paese che è il nostro, i fragili equilibri di potere, l’arroganza di
governanti, grandi imprenditori, manager d’assalto [*]. Il film di
Rosi è del 1972, dieci anni dopo la scomparsa di Mattei e il silenzio
imbarazzato che era calato su un personaggio molto discusso:
quello di Rosi è un lavoro fatto di interrogativi anche senza risposta,
e non indulge mai al ritratto agiografico del capitano d’industria.
Cosa quest’ultima, invece, che non ci ha risparmiato la Rai in
una sua recente fiction su Mattei.
Il film di Rosi si occupa approfonditamente di altri avvenimenti
legati alla morte del Presidente dell’ENI: primo fra tutti, quello del
rapimento del giornalista Mauro De Mauro – avvenuto a Palermo il
16 settembre 1970 – al quale lo stesso Rosi aveva chiesto di collaborare
alla sceneggiatura, incaricandolo di indagare sulla presenza
di Mattei in Sicilia. L’aereo del Presidente dell’ENI precipitò infatti
quasi al termine del viaggio di ritorno a Milano (la cui partenza dalla
Sicilia era stata spostata dall’aeroporto di Gela a quello di Catania),
un “misterioso incidente aereo” – tale fu definito al termine
dell’inchiesta seguita al disastro aereo di Bascapè e alla morte di
Mattei – che in una inchiesta successiva condotta dal Pm Vincenzo
Calia della Procura di Pavia tra il 1994 e il 2003 risultò essere di
natura dolosa (il Gip pavese Fabio Lambertucci a sua volta, dopo
avere esaminato i risultati dell’inchiesta del Pm aveva emesso un
decreto di archiviazione che si richiamava alle conclusioni di Calia).
Mauro De Mauro, dopo il rapimento, scomparve nel nulla e il suo
corpo non fu mai ritrovato. Più volte, in passato e anche recentemente,
si è tentato di individuare il luogo in cui si presumeva fosse
stato occultato il suo corpo, ma nessuna ricerca ha dato finora esiti
positivi.
Oltre al film e a una miriade di libri di contenuto critico e di inchiesta
pubblicati nel corso degli oltre quarantacinque anni che ci
separano dal caso Mattei, vi sono poi le conclusioni di una Commissione
di inchiesta istituita dal Parlamento italiano e presieduta
da Giovanni Pellegrino, e quelle dell’indagine molto approfondita
cui ho fatto cenno, promossa nel 1993 dalla Procura di Pavia.
Ed è soprattutto quest’ultima che ha sollecitato la mia attenzione,
così come quella di altri commentatori che negli ultimi anni
hanno espresso ipotesi, raccolto testimonianze, invocato inchieste,
scritto libri. La relazione del Pm di Pavia – che ha provato come dicevo
l’origine dolosa di quello che fu liquidato come “incidente aereo”
dalle inchieste aperte subito dopo la scomparsa di Mattei –,
suggerisce di tentare un’analisi più approfondita di ciò che può essere
realmente accaduto anche in relazione ad altre vicende collegate
alla tragica fine di Enrico Mattei. «Dall’abbattimento di Bascapè
parte una nuova storia d’Italia, più succube dell’alleanza atlantica
perché mutilata dell’indipendenza energetica ed economica, o
comunque della forza finanziaria che le avrebbe assicurato Mattei.
La storia delle stragi di Stato parte da più lontano» [1].
Da qualsiasi lato lo si osservi, il delitto Mattei appare come una
delle prime e più grandi azioni di depistaggio e disinformazione
nella storia della Repubblica. Non a caso si è scritto che con la
morte del fondatore dell’ENI mezza Italia continuò a ricattare per
decenni l’altra metà. Per il politologo Giorgio Galli la tragedia di
Bascapè si colloca “nell’ambito della strategia della tensione e del
patto scellerato mafia-politica che avrebbe portato alla fuga dal
carcere del boss Luciano Liggio nel 1969, nell’imminenza della
strage di Piazza Fontana [2] e nelle fasi della sua preparazione, e
spianato la strada all’affermazione dei corleonesi in Cosa Nostra”.
La collaborazione di Cosa Nostra al sabotaggio del Morane Saulnier
di Mattei sarebbe arrivata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina,
che risultò vicino a Graziano Verzotto, il segretario regionale della
Dc, responsabile delle relazioni esterne dell’ENI nell’Isola e Presidente
dell’Ente Minerario Siciliano (Ems). Verzotto può essere considerato
il personaggio emblematico di uno Stato che non distingueva
e non distingue più tra criminali e persone oneste, dove impera
la collusione tra politici e mafiosi (e perfino poliziotti, magistrati,
giornalisti risultano invischiati nelle maglie mafiose) e dove
si è praticata una guerra tra bande ciniche, spietate, non meno
corrotte e sanguinarie della manovalanza fascista, spesso “in giacca
e cravatta”, da considerare alla stessa stregua dei rozzi e pressoché
analfabeti “picciotti” che materialmente hanno piazzato le
bombe e a cui è stata assegnata licenza di uccidere.
Eugenio Cefis, manager dell’ENI dal 1957, era già fuori dall’azienda
petrolchimica di Stato quando Mattei morì. Italo Mattei riferì
che il fratello Enrico aveva scoperto il doppio gioco di Cefis con i
servizi americani e lo avrebbe costretto, per questo e per via di
certi altri affari – in particolare per essere stato sorpreso mentre
rovistava nella cassaforte di Mattei in cui erano conservati documenti
riservati –, alle dimissioni dall’ENI. Cefis risultava legato ai
servizi italiani ed era amico del generale Giovanni Allavena, fedele
a De Lorenzo, poi iscritto alla P2, direttore del Sifar dall’ottobre ’62
fino al giugno ’65, coinvolto nel tentato golpe del ’64; consegnò nel
’67 i fascicoli del Sifar a Licio Gelli e fu costretto per questo a lasciare
i servizi. Da un’informazione del giudice Casson del 1995,
Giovanni Allavena risulterebbe in un elenco di dodici agenti della
Cia italiani.