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Ennio Abate-La falsa libertà degli snobismi contrapposti

Da Ennioabate
COPERTINA CALENDARIO 2010 Rispondo all’intervento di Giorgio Mannacio (qui) sperando  di approfondire i temi da lui  affrontati. [E. A]

1.

Dire che la poesia «come fenomeno antropologico» occupi «un significativo spazio nell’attività dell’uomo contemporaneo» mi pare un’affermazione contraddetta dalla percezione empirica che tutti noi – poeti e non poeti – abbiamo della sua marginalità sociale e culturale. (Basti pensare alla diffusione ben più ampia della narrativa, ad es.). E perciò separare, come fai, «dato antropologico» e «dato socio-culturale» a me pare rischioso. Non capisco, infatti, che cosa si debba intendere per poesia se non la vediamo appunto al contempo dal punto di vista antropologico e  da quello socio-culturale, senza separarli.2.

Facciamo una ipotesi un po’ stramba. Rinunciamo per un attimo a porci il problema (politico) della funzione socio-culturale  della poesia (rimanendo, cioè, al livello che tu hai definito del «Poeta Primate») e accontentiamoci  di una poesia perseguita esclusivamente come «culto privato», individuale o di raccolti cenacoli. O addirittura pensiamo ad un qualcuno che se la coltivasse da eremita assolutamente isolato dal mondo su un’isola deserta, come un Robinson Crusoe. Dobbiamo riconoscere che, anche se costui o costoro non pubblicassero nessuna poesia, il fatto stessa di scriverla o di leggersela tra di loro o semplicemente di pensarla presuppone un linguaggio poetico e li renderà comunque partecipi di  tale linguaggio, che per forza di cose ha avuto origini sociali. Anche se il poeta eremita o Primate lo idiomatizzasse fino all’estremo della quasi irriconoscibilità o incomunicabilità (l’ultimo Joyce).

3.

Colgo  qui l’occasione per dire  che la “poesia samizdat” (io veramente parlo di solito di «poesia esodante»…) non significa affatto poesia privata o culto privato o eremitico della poesia. Per me la poesia è fatto sociale ( ora più ampio ora più ristretto, a seconda delle contingenze storiche e del tipo di società in cui viene esercitata).

4.

Non mi sento di negare che gli «alti lai» sullo stato della poesia (sulla sua crisi) siano motivati. Per me è già un enorme problema il fatto che ci stiamo rassegnando a due visioni della poesia che ritengo entrambe patologiche: una la vede come un fenomeno “di nicchia” e una la vede come un fenomeno “di massa”. E così – l’ho ripetuto varie volte in questi anni – vengono alimentati due snobismi contrapposti e dannosi: di presunte élites da una parte e di presunto “popolo poetico” dall’altra.

5.
Essendo la poesia impossibilitata (ma per ragioni storiche, dico io) a svolgere quella funzione socio-culturale abbastanza rilevante (non mitizziamo il passato…) che aveva nelle società antiche o premoderne (fino alla rivoluzione industriale per intenderci), molti si sono adattati a questa sua emarginazione nella società. O sublimandola idealisticamente. O buttando a mare il patrimonio di esperienze storiche complesse (quelle designate dal termine ‘Tradizione’) e contrabbandando per poesia la versificazione del disagio esistenziale o sociale. (Rimando alla mia recente critica a Polansky su questo blog: qui).

6.

Ci sono di fatto due partiti (non dichiarati, non organizzati, “spontanei”): il primo fa della poesia (anzi della Poesia) oggetto di alto artigianato, di vanto e di distinzione individualistica. Il secondo si accontenta di un suo surrogato aggiungendo, al posto di quel sapere che non ha per eredità o studio, dosi più o meno rilevanti di “passione”, “ribellione”, “corporeità”. Entrambi finiscono per accogliere la condanna di fatto che l’assetto sociale capitalistico ha decretato contro le forme “obsolete” di linguaggi considerati poco pragmatici e poco “comunicativi”. (Notare che così  viene cancellata come cosa irrilevante la ricerca di libertà che i linguaggi poetici hanno sempre inseguito!). E così da tempo la poesia viene coltivata in ghetti dorati, che convivono – pluralisticamente, democraticamente, multiculturisticamente – con i ghetti plebei, underground, anarchici o maudit.

7.

Il primo partito alimenta l’ideologia della poesia come  bene rarissimo sempre, cibo prelibato preparato da pochissimi selezionati (da chi?) sacerdoti della Parola, che apparirebbero come  solitarie comete (sì e no uno o due per ogni secolo) per parlare a un pubblico ristretto di devoti e affini (ah, le affinità elettive!), mentre un pubblico più vasto di profani può solo ammirare o invidiare, senza alcuna possibilità di capire e partecipare.

8.

Il secondo, che snobba questa Poesia (la vera, la unica, quella di sempre secondo gli aristoi, i migliori), accetta di nutrirsi della poesia “di massa”, quella “gastronomica”; e si accontenta di registrare la rabbia, la disperazione, l’odio, le paure dei sottomessi o degli incazzati senza troppo elaborare (o formalizzare a sufficienza) nessuna di queste pulsioni, convinto che, per la sua vitalità, questo linguaggio sia già – così com’è – poesia. (Sempre nella critica a Polansky, ho richiamato la confusione tra vita e poesia…) .

9.

Ora non è che non possa venire vera poesia da parte di poeti annebbiati dall’uno o dall’altra ideologia (aristocratica o populista). È che, anche quando essa risulta vera o autentica, porta il marchio del ghetto dorato o di quello underground. Comunque è sminuita nella sua funzione sociale. Che potrebbe, invece, essere più ampia e solida e benefica. Certo, se si realizzassero certe condizioni. Se, cioè, saltassero certe gerarchie  e separatezze niente affatto naturali (come tutte le altre esistenti in altri campi della vita sociale e culturale). O almeno si rendessero più fluidi i rapporti tra i due partiti di cui ho detto. E non ci si rassegnasse alla mostruosa convivenza di una Bellezza per pochi e di una Piattezza per molti.

10.

In passato si è avuto il coraggio di discutere e affrontare il problema. Oggi no. Però almeno non illudiamoci. L’opinione per cui oggi «“non esiste un unico sistema culturale“ ma una pluralità di sistemi» a me pare davvero una visione ottimistica e irrealistica. Il plurale di per sé non è migliore dell’unico, non dà automaticamente più libertà o vera libertà. Non è sicuramente e positivamente democratico. Esiste anche la falsa libertà (Lu Hsun).

11.

Mi pare altrettanto ottimistico presentare il  troppo esaltato «affrancamento dall’analfabetismo» avvenuto tra Ottocento e Novecento come un dato stabile e garantito. Sì, «la “ relativa facilità “ della comunicazione poetica» ha comportato un «aumento a “dismisura“». Ma  di cosa? Non certo «della produzione poetica»! Semmai  di quell’ambivalente, contraddittorio, fenomeno, che ho chiamo dei «moltinpoesia». Pensare che questa – ripeto relativa – «acculturazione» abbia addirittura «strappato l’egemonia dei pochi centri di sapere esistenti in passato favorendone la moltiplicazione e dislocazione funzionale e territoriale» davvero mi appare una favola democratica.

12.

Come non vedere che in questo caos apparentemente democratico (io vedo il bicchiere mezzo vuoto, altri insisteranno a vederlo già mezzo pieno) molti hanno un potere decisionale minimo in fatto di organizzazione della cultura (Gramsci) e altri hanno in mano case editrici, fondazioni, dipartimenti universitari, ecc. In questo caos apparentemente democratico una rivistina autoedita e autofinanziata o un blog letterario sono paragonabili ai gommoni degli immigrati che navigano sullo stesso mare tempestoso in cui navigano (contro di loro e pronti ad affondarli!) le corazzate editoriali multinazionali.

13.

Guardiamo in faccia questa realtà antropologica e socio-culturale. L’egemonia di certi poteri non è stata affatto spezzata. Semmai è velata dai fenomeni di superficie, tipici della cosiddetta “partecipazione democratica di massa” . Sì, una cultura ufficiale e il canone sono venuti meno, ma i poteri non ufficiali continuano ad operare, intrigare, manovrare, condizionare. E saranno sempre questi, a decidere quale Poeta Sapiens accogliere o rifiutare facendolo passare per oggettivamente meritevole. Se non verranno individuati, smascherati e contrastati da gruppi organizzati con intelligenza, lungimiranza ( e magari con le armi della «ironia totale» o «relativa»). Ma per ora non se ne vedono.


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