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Ennio AbateNote a un autocommento di Stefano Dal Bianco

Da Ennioabate

platano 2Vorrei tornare sull’autocommento a una sua poesia, Platano, di Stefano Dal Bianco apparso su LA LETTERATURA E NOI (qui), che avevo già segnalato (10 novembre 2013 alle 12:08) come un esempio di consapevolezza da parte di un poeta di  quanto sia complicato il rapporto tra vita e scrittura.

Faccio notare innanzitutto che l’autore non si muove in un’ottica politica, quella che io preferisco e sento ancora oggi doverosa. Il suo, infatti, potrebbe essere definito uno sguardo filosofico minimalista o fenomenologico. Si occupa, infatti, soltanto della «possibilità di rappresentare nella scrittura una certa esperienza percettiva», cioè quella che un poeta d’oggi può provare guardando un qualcosa (un platano in questo caso).  Siamo perciò lontani dai problemi sicuramente più ardui  che si porrebbero a chi avesse l’ardire di proporsi una rappresentazione poetica degli eventi sociali, politici e culturali  della storia d’oggi,  che hanno messo fuori gioco non solo il nostro sistema percettivo ma ben altro: la nostra morale, la nostra visione del mondo.

Eppure, nel suo “minimalismo”, Dal Bianco evita un errore molto  diffuso in poesia: la confusione tra vita e scrittura. Egli, infatti,  sa che «mettersi a scrivere di una cosa significa perderla, perdere l’esperienza di quella cosa, perché il momento della scrittura non può essere il momento vissuto». Non confonde romanticamente (o si potrebbe dire: ingenuamente, ambiguamente, furbescamente: le tre possibilità vanno soppesate per ogni poeta caso per caso) le due cose. Perciò, magari a malincuore, si assume la responsabilità di una scelta che è di etica e di poetica al contempo. E gli è chiara la conseguenza (sia per chi scrive sia per chi legge):« Per scrivere mi devo allontanare dall’esperienza sensibile che sto vivendo. E allora quella ‘cosa’ descritta forse non è più vera, o comunque nella scrittura è un’altra da quella che è nella realtà».

Siamo così almeno fuori dal naturalismo o dal vitalismo, che ancora illude molti scriventi. I quali pensano di continuare a vivere. Biologicamente è anche vero. E però il taglio, il passaggio a un modo di vivere – diciamo – culturale, c’è. E non si può far finta  che sia irrilevante. Non è, infatti, che, scrivendo (e scrivendo poesie poi), aggiungiamo semplicemente un qualcosa in più alla nostra vita, un piacere in più. Scrivere e scrivere una poesia comporta notevoli limitazioni e contraccolpi. E tutta l’attuali apologia della scrittura e la sua diffusione di massa dovrebbe insospettire. Sta di fatto che, se prima di scrivere, eravamo o ci illudevamo di essere dentro la vita - innamorati appassionatamente di qualcuno o qualcosa (che può andare da una donna a un luogo, a Dio, alla politica, all’arte, alla rivoluzione) -,  quando ne scriviamo, tutto va sullo sfondo. Si sospende, si trasforma, si deforma, diventa altro.  Anche se non ce ne accorgessimo. Anche se non volessimo. Una cosa è vivere. Un’altra è scrivere poesie sull’esperienza che abbiamo del vivere.

Dal Bianco si muove, dunque, nell’orbita di quel pensiero estetico novecentesco antivitalistico. Che, ad esempio, nel 1948, suggerì all’ironico Magritte il  notissimo quadro raffigurante una pipa e sotto un cartiglio con la scritta «Ceci n’èst pas un pipe». (Una chiara distinzione tra vita e pittura, analoga di quella tra vita e scrittura, poetica o meno).

Qualche malizioso potrebbe chiedersi: ma è  d’obbligo  fare questa scelta (etica e di poetica)? è garantito che produca buona poesia? Niente affatto. Perch le poetiche non si scelgono né per convenienza né perché danno un vantaggio  o peggio ancora perché garantirebbero un buon risultato e forse il “successo”. Non sono ricette che si possono applicare strumentalmente in vista appunto di un risultato. Sono, invece, scelte vincolanti – direi etico/politiche. E maturano nel poeta o nello scrittore attraverso un processo spesso lungo e contorto. Né sono intercambiabili. Non si passa facilmente o disinvoltamente da una poetica di tipo romantico ad una classicista. O viceversa. (E lasciamo perdere le soluzioni intermedie o del tutto insolite, per cui, ad esempio, fanno ridere quelli che definiscono Leopardi un romantico e stop).

La stessa cautela si richiede nella valutazione dei testi prodotti. Individuare la poetica che sta alla base di un testo aiuta la sua comprensione, ma non ci dice con certezza che esso sia di buona poesia. Per accertare che lo sia non si scappa: ogni  testo chiede di essere indagato e interpretato. E le interpretazioni – lo sappiamo – possono essere contrastanti. E’ difficile che tutti saranno d’accordo nel giudicare un testo buona poesia. La mancanza di unanimità è ovvia. Il campo estetico è anch’esso campo di  battaglia. E anche la scelta  a favore o contro un testo o un poeta non può essere intercambiabile o opportunistica. Meglio se fosse il più possibile ragionata e motivata in modi non capricciosi o casuali o  troppo soggettivi. Questa dovrebbe essere la funzione della critica oggi latitante o boccheggiante: mettere a disposizione delle buone ragioni a favore o contro un testo poetico. Saranno sempre più affidabili delle impressioni genialoidi o dell’intuito o del “fiuto” di improvvisatori o ciarlatani.

Questo scarto (doloroso) tra vita e poesia (o scrittura) è un problema arduo e pieno di implicazioni per chi se lo pone. Può sembrare una questione fastidiosa o oziosa solo per chi semplifica troppo e continua ad illudersi sulla possibilità di armonizzare facilmente vita e poesia, capra e cavoli. Di recente il tema è stata ripreso su «Le parole e le cose». Il blog ha pubblicato un inedito di Michel Foucault con un titolo che i sostenitori del legame diretto e pacifico tra vita e scrittura troveranno quasi sconcertante: «La scrittura è la morte degli altri».(http://www.leparoleelecose.it/?paged=2). Foucault senza mezzi termini dice: « Ciò che è chiaro, ciò che ho subito sentito, quando verso i miei trent’anni ho cominciato a provare il piacere di scrivere, è che questo piacere comunica sempre con la morte degli altri, con la morte in generale. Di questo rapporto fra la scrittura e la morte oso a stento parlare, perché so bene che uno come Blanchot ha detto a questo proposito cose molto più essenziali, generali, profonde, decisive di quanto possa dire io adesso».

Ma torniamo a Dal Bianco. Egli, consapevole del problema, evita di imboccare la strada della letteratura (o della poesia) come pura finzione o come «menzogna» (Manganelli) o come gioco. Non ne ha una concezione postmoderna. Ci tiene ancora a «salvaguardare al massimo (del tutto è impossibile) il contenuto di verità del platano [io direi: della realtà] nel momento in cui lo si mette per iscritto». Il che è possibile secondo lui: 1. se il poeta nella sua poesia parlerà proprio del platano, magari di quel platano e non di sé; 2. se farà il possibile per far arrivare il suo messaggio al lettore; 3. se il lettore a sua volta farà il possibile per cogliere il messaggio e l’intenzione dello scrittore (operazione complicata dal fatto che il lettore non ha partecipato all’«esperienza originaria della percezione dell’albero»). E una proposta apprezzabile e da discutere.

Da questo punto in poi, però, l’autocommento di Dal Bianco va in una direzione che mi lascia perplesso. Parla di una poesia che dovrebbe sorgere da un «cortocircuito d’amore» fra scrittore, albero [realtà, nota mia] e lettore; e insiste fin troppo sul fatto che tutto debba svolgersi «senza utilizzare troppa energia, cioè anche senza crederci troppo, senza sforzarci». Viene così venga enfatizzata ancora una volta l’idea della poesia come pura «epifania» (Joyce?) e dell’esperienza poetica come qualcosa di unico e sotto sotto di eccezionale e privilegiato («un’esperienza è tale solo se è unica. Non si può cercare di ripeterla, pena anche il mancato rispetto per il lettore, e insomma la riproposizione in forma raffinata, ma non meno bieca, del solito solipsismo autoriale, del suo narcisismo»).

Ora sarà pur vero che, come uomini d’oggi, «abbiamo meno tempo e meno concentrazione e meno forza di quelli che ci hanno preceduto». Ma possono i poeti aspettare solo epifanie o devono pur essi sforzarsi di  andare in qualche direzione più precisa? Non mi pare che la libertà di cui sempre abbiamo bisogno possa essere simboleggiata da un genericissimo mare (quello del primo verso della poesia verso il quale il poeta cammina). Neanche condivido la svalutazione del narrare rispetto al poetare: «chi racconta sa già che sta mentendo». Come se chi scrive poesie dicesse di sicuro la verità («nel verbo “scrivere” c’è dentro tutto: c’è molta più responsabilità»). Né infine l’idea che la lingua sia «falsa per statuto». Non lo credo. La lingua ha le sue ambiguità. Ma è grazie alla lingua, che da esse possiamo uscire.


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