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Ennio AbateSei note di un osservatore partecipe su «I poeti sono troppi»

Da Ennioabate
bertelli
E’ un mio commento riepilogativo ad una interessante discussione in corso sotto un post di Diego Bertelli pubblicato su LE PAROLE E LE COSE (qui). [E.A.]

1.
«verissimo che esistono troppi libri spazzatura di non-autori o meri poeti “amatoriali”. poco vero però che questi amatori offuschino i grandi o “riducano il valore della poesia». (Andrea)

Questa constatazione non solo è onesta ma, consapevole o meno l’autore, ha il merito di mettere in un’unica cornice la questione che dovrebbe essere al centro di questa discussione: il contrasto – latente, ma reale e di ardua soluzione – tra *essere pochi in poesia* e *essere molti in poesia*.

2.
È diventato difficile (o addirittura impossibile?) affrontare tale contrasto in modo dialettico. Dopo che abbiamo visto fallire sia i tentativi miranti a “una poesia per tutti” o persino “di tutti” (avanguardie surrealiste, neoavanguardie) sia quelli intesi al recupero/difesa della Tradizione (o di una tradizione). Da qui la crisi (anche della poesia). Ma anche i modi, a mio parere abbastanza puntuali ma parziali e in fondo unilaterali, con i quali sia Bertelli sia i suoi contestatori hanno scartato una questione ancora fondamentale (per me): in che relazione stanno i due fenomeni: la poesia prodotta dai pochi e quella prodotta o tentata dai molti; la poesia pubblicata dalle grandi case editrici e quella pubblicata dai piccoli editori o “selvaggia”; quella che passa per poesia di serie A e quella che passa per poesia di serie B o C o non poesia?

3.
Invece dell’indispensabile (sempre per me) discorso unitario e complessivo che affronti con rigore entrambi i fenomeni, ne sono stati fatti di separati e contrapposti. Bertelli, ad esempio, ha bersagliato esclusivamente la piccola editoria (pur riconoscendo – ma è facile farlo in astratto – le eccezioni) senza considerare l’intero sistema editoriale (grande e piccola editoria), trascurando dunque che meccanismi analoghi a quelli da lui denunciati o altri (amical-professional-corporativi), ben più occulti o silenziati e dagli effetti persino peggiori sono in vigore nella stessa grande editoria. Non si ha forse nella grande editoria «uno spreco di risorse perpetrato» in nome di un altro tipo (elitario) di vanità più tollerata di quella di massa da lui (in parte giustamente) denunciata? Che dire, ad esempio del Meridiano di poesia della Spaziani pubblicato dalla Mondadori e del rifiuto di fare un Meridiano per le poesie di Fortini (se ne parlò anche su questo blog: http://www.leparoleelecose.it/?p=5623)? In questi casi il problema dello spreco di carta non esiste? Ci si può limitare – Bertelli ha chiesto «una tutela editoriale» – all’auspicio di un generico intervento correttivo-punitivo? (Chi poi lo dovrebbe fare non dice). E se esiste una «fetta di piccola editoria che lucra sui sentimenti spontanei, una volta relegati alla pagina del diario segreto», non lucrano altrettanto la grande editoria o altre fondazioni o accademie su sentimenti che magari si presentano meno spontanei, più “civilizzati” o “rispettabili”?

4.
Il problema dell’editoria ( grande e piccola, a pagamento e apparentemente non a pagamento o “mecenatesca”) andrebbe distinto più nettamente dal problema del valore dell’opera che arriva in qualche modo alla pubblicazione. E quindi da quello della *funzione* (possibile o impossibile oggi?) della critica. Fa bene Detrito a ricordare che « il singolo critico è destinato a soccombere, di fronte alla portata del flusso incessante di opere». Ma Detrito – dico ora dei limiti della contestazione a Bertelli – non so se per disperazione o ideologia mi pare cancellare la critica dalla faccia della terra. Sembra che egli accetti i processi in atto (la moltiplicazione delle scritture poetiche, parapoetiche, similpoetiche o di massa; tutta quella produzione di una mal indagata “nebulosa poetante”) come inarrestabili e in sé assolutamente positivi («la poesia non gode di cattiva salute»). Senza fare distinzione tra spinte emancipatrici e comportamenti coatti o subiti. Senza ricordarsi che anche i tumori a volte sono inarrestabili. S’inchina (ripeto: non so se per disperazione o ideologia) all’effimero, invece di chiedersi perché certe forme devono restare effimere (per coazione o scelta libera?). E accoglie allo stesso modo indiscriminatamente tutte le forme di oralità, come se la loro espansione cancellasse il problema posto da Bertelli – quello della scrittura poetica (e dell’editoria di poesia). Come se – pur continuandola lui stesso a praticarla – ¬ la scrittura fosse qualcosa di sorpassato rispetto all’oralità e magari destinata a scomparire. O esalta, sempre in astratto, una improbabile « poesia che non ambisce ad entrare nei canoni, assolutamente indifferente alle classificazioni della critica e alle questioni editoriali»; e quindi soddisfatta (davvero?) di restare in un mondo tutto suo. O sostiene che « la poesia popolare è viva e lotta insieme a noi», mentre a me pare davvero improbabile che si possa oggi parlare di «poesia popolare» come fossimo nell’Ottocento.

5.
Se teniamo ferma la necessità di una *funzione critica* nei confronti della produzione poetica (d’élite e di massa) e non la liquidiamo come “reazionaria”, dobbiamo però riconoscere l’insufficienza di procedere “artigianalmente”, come mi pare proponga Castiglione (e come ho sperimentato io pure con in Lab. Moltinpoesia di Milano). Si resterebbe in una zona di marginalità o di pionierismo semiclandestino. C’è invece l’esigenza di un unico, forte discorso da svolgere su un piano *politico-estetico* unitario. E forse si costruirà solo se non ci si rinserra nei due snobismi contrapposti (d’élite, di massa) che vedo serpeggiare anche in questa discussione. A Castiglione chiederei perciò: come fa a scegliere *i testi di qualità* da sottoporre a critica attenta? Non è che li pesca, come capita, per pigrizia o difficoltà oggettive, solo tra quelli che ha più sotto gli occhi (il circuito amical-professional-corporativo), mentre ci sarebbe da porsi il problema di esplorare – coordinando il coordinabile e convinti dell’importanza dell’impresa – il «mare magnum» della produzione di massa, operazione di solito squalificata in partenza per un pregiudizio elitaristico (si vedano certi giudizi acidi di Berardinelli, ma non è il solo…) o ritenuta impraticabile a priori?

6.
In vista di questo unico discorso *politico-estetico*, ben ha fatto Barone a indicare la ricerca di Rosenkranz. L’accolgo con piacere, anche perché si avvicina al discorso da me tentato (senza conoscere questo autore) di una fluidificazione tra livelli supposti alti e livelli supposti bassi (Cfr. Appendice qui sotto).

Appendice:

Se ho capito bene, tu auspichi una sorta di liberazione dalle strettoie della critica letteraria ufficiale, verso una più ampia collettività di lettori critici. Mi pare, però, che tu abbia saltato a piè pari il “giudizio di valore” sull’opera poetica. Come ben sappiamo spesso hanno successo opere di livello assai mediocre, fortunate perché l’autore è già noto per altre faccende, o perché spinte da gruppi con potenti e non sempre disinteressati intenti nel mondo culturale. Vuoi, per favore, farci capire come intendi distinguere – per dirla nel modo più rozzo – tra poesia esodante bella e poesia esodante brutta?

Ti dico subito e con una formula la mia tesi: La poesia (esodante o meno) è bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli, gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità elitaria. Ed esso risulta anche convincente per il senso comune, perché, a livello empirico, le differenze di qualità (fra testi riusciti o non riusciti ma anche fra le facoltà mentali, intellettuali e corporee degli individui)saltano all’occhio, sono evidenti, accertabili, innegabili. Se però ci riflettiamo, questo pensiero estetico ha due gravi difetti: 1. come una maschera nasconde una sorda resistenza contro quelle ricerche poetiche e artistiche veramente non canoniche, che riescono dinamicamente
mescolarsi con il comune, il molteplice e persino col banale, il brutto, il non riuscito; 2. dimentica e fa dimenticare che la gerarchia – presente in ogni giudizio estetico – fissa a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio di pochi, che però parlano in nome di tutti) un valore, il quale – attenzione – è anche un segno di violenza e non solo di razionale o impersonale evidenza. Non voglio scandalizzare, ma mi sento di affermare: c’è un bello che “violenta” il brutto, lo mette fuori gioco, lo esclude, impedisce la sua funzione, irrinunciabile per me, di negazione della pericolosa “dittatura” del Bello assoluto. Questo non mi va. In ogni campo, anche in quello estetico, posso accettare, sì, una gerarchia includente, mai una gerarchia escludente. Qui il mio giudizio si fa politico estetico: stabilire una gerarchia escludente (ad es. Croce: poesia e non
poesia) ha avallato, sul piano simbolico-linguistico, inaccettabili soprusi, che sono omologhi di quelli storici sedimentatisi, con violenze materiali smisurate, nelle nostre società diseguali e conflittuali. Continuo, dunque, a immaginare che eccellenza e mediocrità, bellezza e bruttezza potrebbero avere un altro senso: includente appunto e non escludente. Di più: che bellezza e bruttezza – per me valori e disvalori provvisori, storici, rimodellabili in sempre nuovi ordini, anche gerarchici, però nuovi e fluidi – debbano dialogare tra loro per trasformarsi anche conflittualmente. L’atto giudicante, che separa il bello dal brutto, l’eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito, è per me umano, soggettivo; deve cioè restare sempre rivedibile, mai presentarsi come oggettivo e definitivo. Non mi arrischio ad ipotizzare una base comune tra bello
e brutto. Più praticamente sento fecondi gli scambi, le contaminazioni, le dialettiche (non a senso unico) fra loro.

(da http://www.poesia2punto0.com/2013/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/)


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