1. Come mi capita spesso di fare, prendo spunto da un commento, stavolta pungente e polemico – quello di Roberto Buffagni (qui). In sostanza, contestando l’interpretazione primo-novecentesca – “futuristeggiante” e da “poeta-scienziato” – che ho colto nel “Discorso su Dante” di Mandelštam, Buffagni riafferma proprio la visione “tradizionale”: quella del “Dante-monumento”, del “poeta grandissimo” e “grandissimo uomo e cittadino”. Cosa rispondere?
2. Riporto innanzitutto (e per comodità dei lettori) quanto scritto da Buffagni:
roberto buffagni
16 gennaio 2014 alle 17:56
Bè, che uno si aggrappi a Dante quando gli tocca di fare un giro all’inferno come a Mandel’stam o a Levi non mi sembra strano. Né mi sembra strano che ci si specchi, fino ad attribuirgli la sua propria goffaggine (M. era goffo, un gran pasticcione), la propria insicurezza, le proprie debolezze umane. Dante, per quel che se ne sa, nella vita tanto goffo non era, anzi (difficile essere imbranati e sopravvivere a uno scontro di cavalleria all’arma bianca); e francamente, nella Commedia la goffaggine proprio non ce la vedo, come non ci vedo la geologia, la fisica dei quanti o i cerchi nel grano. Sarò banale, sarò servile, ma il cattolicesimo ce lo vedo eccome, e per non vedercelo bisogna impegnarsi mica male: come bisogna impegnarsi mica male per non vedere l’analogia di bruciante attualità tra l’episodio del conte Ugolino e la carestia ucraina provocata da Stalin, l’Holodomor [1](svariati milioni di morti di fame, molti episodi di cannibalismo anche intrafamiliare). Ora, pare che M. si sia deciso a scrivere la poesia contro Stalin che gli è valsa la deportazione e la morte proprio perché era venuto a sapere, da fonti incontestabili, di quella gigantesca catastrofe politica e umana, che si svolgeva mentre tutta la verità ufficiale cantava “ma come si sta bene qui nella patria del comunismo”.
Se stava zitto, se continuava a stare zitto, temeva di finire per disprezzarsi, decadere, diventare una merda. Scrisse, recitò agli amici, alla moglie e all’amante, la quale ultima per timore di rovinarsi e prendere un trenino per la Siberia se taceva, lo denunciò.
Rischiava un colpo alla nuca in una cantina della Lubianka; ma Stalin amava i poeti e i letterati, e gli andò bene (si fa per dire).
Che poi non abbia voluto insistere diffondendosi sulla vicenda di uno che per ragioni di politica è morto di fame dopo aver mangiato i cadaveri dei figli, quando in ogni istante i servizi segreti potevano frugare tra le sue carte, mi sembra più che umano: per fare una simile scelta da monumento eroico ci voleva giusto Dante, uno capace di esiliare e mandare a morire, per rettitudine e amor della patria, il suo migliore amico di gioventù[2]; o di rifiutare l’amnistia propostagli dai nemici politici purché ammettesse le sue (false) colpe, autocondannandosi a non veder mai più Firenze, neanche da morto; e costringendo i figli, se volevano stare con lui, alla vita dell’esule (lasciamo stare Lampedusa che non c’entra un cavolo, Dante era uno sconfitto politico, ma non era una vittima di niente).
Perché Dante, ragazzi, e M. può dire quel che gli pare, è SUL SERIO un monumento, e tale era anche in vita: era cioè non solo un poeta grandissimo, ma un grandissimo uomo e cittadino. Dà fastidio? Dà fastidio. Fa venire il mal di testa, il senso di colpa, di insofferenza, di inferiorità? Eh sì. Però è così. La grandezza himalayana è quella roba lì. Futile fargli le bucce adducendo che gli piaceva troppo il mascarpone, che faceva rumore bevendo il brodo…
3. Per cominciare, ricorderei che, nel mio dialoghetto, avevo messo in bocca al poeta esodante queste caute parole:«Ma non l’avrai vinta tanto facilmente col Dante dei professori. Occhio, quello resisterà. Non è che il Dante-monumento non esista o sia un’invenzione degli accademici. Si è costruito accanto a quello imbranato. E vi ha contribuito proprio quel Virgilio-ragione, che Dante scelse come guida». Ho voluto cioè attenermi a una visione dialettica, che non vede le cose a una sola dimensione. O, quantomeno, suggerire implicitamente che il conflitto delle interpretazioni non ha mai delle acquisizioni ultimative e definitive. E che, se una parte (quella «samizdat», l’ alter ego “politicizzato” del «poeta esodante») è attirata dall’immagine del Dante «poveraccio», sulla quale ha insistito Mandelštam (e che ho trovato in parte coincidente con quella che mi ero costruito io: del “Dante migrante” o “esodante”), non è che l’immagine del Dante-monumento svanisca di colpo. E il commento apparentemente leggero e volutamente ironico, disinvolto e non professorale di Buffagni proprio questo conferma. Perciò a me non scandalizza.
4. Buffagni contesta in toto non solo il Dante «poveraccio» di Mandelštam, ma sostiene vigorosamente che , sì, Dante è proprio un monumento (intoccabile, aggiungerei). E lo fa scoperchiando, per così dire, gli altarini del Mandelštam “formalista”. Tema che, nel dialoghetto, Samizdat – un po’ per ammirazione verso il poeta russo (da me condivisa), un po’ per rimanere al testo in questione (il suo «Discorso su Dante»), un po’ per non cambiare argomento, occuparsi cioè del contesto storico del saggio di Mandelštam, e cioè del volto meduseo della storia dell’Urss oggi completamente eclissatasi e ardua da disseppellire – ha appena sfiorati.
5. Egli accenna poi persino – almeno a me così pare - a una reale, feroce, ragione politica, che avrebbe indotto Mandelštam ad autocensurarsi, a sorvolare, a rimuovere un approfondimento “contenutistico” dell’episodio di Ugolino. Tanto scottanti avrebbero potuto essere i collegamenti possibili tra la figura del Dante esiliato e la condizione di “immigrato interno” e sospetto “nemico del popolo” dello stesso Mandelštam. Visto che, negli anni Trenta, per quel che man mano si è venuto a sapere dell’esperienza di costruzione del «socialismo in un sol paese» in Urss, quel Paese aveva mantenuto pesanti tratti “medievali”, non tanto dissimili da quelli dei tempi di Dante in quanto a ferocia della lotta politica.
6. Inoltre, a livello simbolico, sarebbe facilissimo e non del tutto arbitrario accostare la «orribile torre» col suo uscio inchiodato per sempre dagli sgherri dell’arcivescovo Ruggieri all’Urss di Stalin, che la propaganda dell’Occidente “libero” sosteneva fosse – unicamente per “cattiveria” dei comunisti mangia-bambini - recinta da una «cortina di ferro» (pur contribuendo attivamente il “libero” Occidente a rafforzarla con la cosiddetta Guerra Fredda, che tanto alimentata dalle “radici cristiane” dell’Europa certo non fu).
7. Non so valutare, dai pochi accenni contenuti nel suo commento, quali siano le effettive conoscenze di Buffagni sulla vicenda di Mandelštam, sulla sua poesia e sulla storia dell’Urss. Non mi scandalizzo però, come ha fatto troppo visceralmente Marcello Mariani nei suoi stizziti commenti. Anche se le opinioni di Buffagni su questi temi fossero, come le mie, “di riporto”, per “sentito dire”. Non tutti possiamo viaggiare per il mondo o avere informazioni dirette e di prima mano. Né vedo perché non dovremmo interrogarci su un poeta, che non siamo in grado di leggere in lingua originale (ma a che servono, allora, i traduttori?) o di sapere a fondo la storia del Paese in cui ha operato. A patto che il nostro discorso non diventi chiacchiera da salotto o un’operazione presuntuosa e ideologica, tendente a mostrare questo o quel fuscello nell’occhio ex-sovietico e a tacere della trave presente (da secoli) in quello occidentale. O a ridurre a pura propaganda da “libro nero del comunismo” l’evocazione di questa o quella strage.
8. L’accenno di Buffagni, ad esempio, all’Holodomor ucraino potrebbe far sospettare che egli possa volersi fermare a quella porzione (“comunista”) dell’orrore della storia umana. Ma, avendo – almeno io – già, in altre occasione e in altro siti (Le parole e le cose in particolare), avuto Buffagni come interlocutore/antagonista, posso assicurare i lettori di questo blog sulla sua “correttezza dialogica” . I suoi discorsi partono certamente da premesse “tradizionaliste” (per me astoriche o che comprendono la storia degli uomini in una visione, che mi permetto di definire “cattolico-manzoniana-noventiana”), ma non sono mai bassamente unilaterali o tendenti a scaricare le tragedie della storia esclusivamente sugli “altri” (i demoni, i cattivi, i bestiali).
9. Perciò, a me pare di cogliere, anche in questo suo sguardo “impertinente” sul tema da me posto nel dialoghetto, persino una interessante ipotesi di portata generale (quasi a sfondo psicanalitico). E’ come se Buffagni avesse chiesto: Non è che il formalismo (di Mandelštam, ma anche di tanti altri poeti e intellettuali “macinati” dalla rivoluzione sovietica, che spesso avevano accolta speranzosi o persino con entusiasmo, come capitò ad Alexsandr Blok o a Vladimir Majakovskij), sia la risposta sublimante e cifrata, alla quale poterono aggrapparsi uomini sensibili, che non volevano completamente «finire per disprezzarsi, decadere, diventare una merda», ma erano costretti da forze ben più potenti di loro a tacere o a non dire ormai, se non in forme travestite, quel che pensavano? (Del resto, anche in altre epoche “repressive”, il manierismo o il barocco funzionarono allo stesso modo. Basti rivedersi l’epoca della Controriforma, che pare stia tornando addirittura di moda tra autorevoli intellettuali italiani (qui) o la storia degli eretici, studiata da Cantimori e più di recente da Prosperi. Si ritrovano gli stessi comportamenti, più o meno di “dissimulazione onesta” o disperata, di Mandel’štam e di altri scrittori d’epoca sovietica.
10. Quanto al Dante-monumento che Buffagni contrappone (troppo, secondo me) al Dante «poveraccio» e “formalista” di Mandelštam, invitandoci ad inchinarci alla sua « grandezza himalayana», insisto a non essere d’accordo. Non per «fastidio». O perché di fronte a «un poeta grandissimo, ma [anche] grandissimo uomo e cittadino» mi venga «il mal di testa, il senso di colpa, di insofferenza, di inferiorità». Piuttosto per le ragioni che – guarda caso – proprio in questi giorni ho spiegato, qui sul blog, a Antonio Sagredo a proposito della distinzione drastica che egli faceva tra Poeta e poeti. (Trascrivo il commento sotto per comodità dei lettori [3]). E anche per un’altra ragione elementare e di carattere generale: non tutti possono entrare nella storia dagli ingressi principali o riservati a certe élite. Come capitò a un Dante, inviato dai responsabili della stanza dei bottoni di una Firenze, allora abbastanza al centro del viavai della “Grande Storia”, in delegazione da uno dei potentissimi d’allora come Bonifacio VIII. Molti vi entrano dalla porta di servizio. Altri, come il «poveraccio» Mandel’štam, finiscono negli scantinati. O alloggiano «sulla scala di servizio» (Cfr. la poesia «Leningrado», che abbiamo sfiorato in altra discussione: http://moltinpoesia.wordpress.com/2014/01/03/letture-per-poeti-10si-lavava-di-notte-allaperto/#comments).
11. E poi a me poi ha sempre ed enormemente impressionato (ah, le proiezioni!) - e lo cito continuamente - questo detto di Brecht : – Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo![4]). Ecco, quella di Mandel’štam (come le nostre o le mie d’oggi!) sono di questo tipo. Non per questo debbono scomparire rispetto a quella di un Dante, fonte unica, perenne, inimitabile, castrante, diciamocelo.
12. Quanto al cattolicesimo della Commedia (comunque tutt’altro che bigotto e in odore di eresia, a sentire certe interpretazioni del pensiero di Dante), non è che non ce lo vediamo. E che non ce ne accontentiamo. Non ricordo più dove lo lessi, ma Zanzotto, a chi troppo sottolineava questi legami di Dante con il cattolicesimo o discuteva seriosamente persino sull’ipotesi che Dante avesse scritto la Commedia sulla base di una visione dell’aldilà o dopo un effettivo viaggio da quelle parti, rispose che a lui interessava la lingua in cui Dante aveva usato per parlare di quel viaggio; e che questa soprattutto questa doveva interessare i lettori, credenti o non credenti. Altrimenti la Commedia si riduce a una esposizione della Summa di Tommaso d’Aquino.
13. Sullo specchiarsi in Dante attribuendogli « la sua propria goffaggine», come ha fatto Mandelštam, non ci vedo nulla di male. Saranno proiezioni soggettive. E toccherà poi ai critici e agli storici della cultura stabilire se hanno colto un tratto più o meno nascosto della personalità e dell’opera di Dante o se si tratta di esagerazioni o travisamente per motivi “personali” o “contingenti” (per cui svelano più del sé del lettore o della mentalità della sua epoca che non di Dante o del Medio Evo). Possono però essere sempre dei varchi per avvicinarsi alla sua figura e alla sua opera. Non è una buona cosa? Secondo me i tentativi di “attualizzare” Dante servono. Specie oggi che tutta la cultura umanistica è caduta in discredito. Accanto, dunque, all’interpretazione che Mandelštam ha dato di Dante, ci stanno bene – per complicare il discorso – anche quella altri. Di Saba, ad esempio, che in lui ci trovava «un padre e bambino contemporaneamente (363). Lo ricorda sempre Zanzotto; e ne riporto in nota[5] il brano.
14. Velocemente per finire. È così sicuro Buffagni che bisogna lasciar stare «Lampedusa che non c’entra un cavolo» con Dante, che «era uno sconfitto politico, ma non era una vittima di niente»? Davvero i migranti che lì arrivano non sono vittime di niente? Davvero non ci sono tra loro molti «sconfitti» o profughi politici che alla lontana, come Dante, ma «sul fondo» della storia, imparano a loro spese quanto « sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»?
[1] Holodomor (in lingua ucraina Голодомор), noto informalmente anche come Genocidio ucraino o Olocausto ucraino, è il nome attribuito alla carestia, di origine sia dolosa sia naturale, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina[1] negli anni dal 1929 al 1933 e che causò milioni di morti. Il termine Holodomor deriva dall’espressione ucraina moryty holodom (Морити голодом), che significa “infliggere la morte attraverso la fame”. In Ucraina, il giorno ufficiale di commemorazione dell’Holodomor è il quarto sabato di novembre.
[2] Da http://www.treccani.it/enciclopedia/dante-alighieri/
«dal maggio al sett. 1296 [Dante] appartenne al più importante dei consigli cittadini, quello dei Cento, e, soprattutto, dal 15 giugno al 15 ag. 1300, fu tra i priori, eletti proprio col compito di opporsi alle intromissioni nella vita pubblica di Firenze di papa Bonifacio VIII che, col pretesto della vacanza dell’impero, e contando sulle discordie cittadine, mirava al dominio sulla Toscana. Notevole nel priorato di D. fu anche il provvedimento preso, pare per suo consiglio, di bandire da Firenze – in seguito a un assalto dei Neri ai consoli delle Arti, e alla reazione dei Bianchi – i capi delle due fazioni; tra i Bianchi era compreso Guido Cavalcanti, il “primo” degli amici del poeta, com’egli stesso lo chiamava nella Vita nuova.».
Non è superfluo precisare che il termine ‘amor di patria’ usato da Buffagni nel Medio Evo non ha il senso nazionalistico che poi ebbe dall’Ottocento in poi.
16 gennaio 2014 alle 09:13 (Modifica)
@ Sagredo
“Ci sono i poeti e ci sono i Poeti”.
C’è troppo snobismo dall’alto in questa affermazione. Non voglio contrapporvi il solito snobismo dal basso, ma questi ragionamenti:
1. “Ci sono i poeti e ci sono i Poeti”? Forse. Si tratta di classifiche strumentali agli interessi di questa o quella lobby letteraria. Perché, fuori da questo giochetto lobbistico, il confine tra poeti e Poeti è stabilito sempre soggettivamente. Ora da critici “autorevoli” (es. Croce) ora da comunità letterarie “autorevoli” (mettiamo: il Gruppo ’63). E varia nel tempo in base a mille fattori esterni. Non mi ci soffermo. Ricordo soltanto che Dante fu a lungo disconosciuto quando erano di moda i petrarchisti.
2. Ma cos’è questa enfasi esagerata sui Grandi Pastori e sui lettori ridimensionati a pecore? Mica siamo in un presepe o in un mondo pastorale o biblico coi suoi Mosè e i popoli selvatici da guidare. Siamo in società “liquide” (Bauman). È tutta un’altra storia ( non necessariamente migliore della passata) che si va a vivere.
3. E poi la grandezza di un poeta si misura dalla piccolezza degli altri? Parafrasando Brecht, dico: guai a quelle società che hanno bisogno del Poeta (l’eroe della poesia, il Vate, ecc.); meglio le società dei * molti in poesia* (e della de-sacralizzazione della Poesia!). La grandezza di un poeta (rigorosamente in minuscolo) sta nell’aprire vie percorribili dagli altri, da molti altri; e non vie riservate a pochi e respingendo gli altri (le folle, le pecore, le masse, gli anonimi). Nel primo caso il sapere nuovo, che il poeta raggiunge (magari in anticipo su altri), non è usato contro gli altri. Nel secondo caso, sì. Nel primo caso il poeta è prometeico. Nel secondo si fa complice di poteri preesistenti, che ogni sapere usano per perpetuare il loro dominio.
[4] Dal frammento La bottega del fornaio (Ne approfitto qui per una battuta di striscio ad foeminas: Ah, le preghiere! Cara Banfi e cara Locatelli, bisogna sapersele scegliere!)
[5] Nel riportare il brano di Zanzotto sottolineo i passi che hanno maggiori collegamenti con la discussione di questo post:
«Occorre insistere sull’ apprezzamento che Saba fa di Dante inquadrandolo nella propria teoria del poeta: si sa che nel poeta c’è un bambino che però è anche un adulto. Il bambino si stupisce della bravura dell’ adulto; l‘adulto si stupisce della profondità delle sensazioni del bambino, e insieme si armonizzano. Se qualcuno è troppo adulto, di fronte alla fresca innocenza della poesia finisce per diventare disdegnoso, sospettoso e perde il contatto con essa. Se invece è troppo bambino finirà per essere eccessivamente egoistico, non arriverà veramente a valori comunitari, cui solo l’adulto può riferirsi. Quest’ultimo è per Saba il caso di Pascoli, da lui citato come troppo bambino (anche se Pascoli si era messo la maschera del bam-
bino per nascondere cose molto più complesse). È uno schema per molti aspetti accettabile. Dante, secondo Saba, rappresenterebbe dunque colui che è insieme bambino e adulto al massimo livello e quindi poeta in senso assoluto. Ma, come sempre avviene, anche Saba attraverso tali apprezzamenti e teorie parla di se stesso pur se non può paragonarsi direttamente a Dante rispetto al quale egli opera in condizioni storiche addirittura capovolte. E vero comunque che Dante ha in sé nascosto un pusillo gemente che si rivela quanto più egli s’innalza verso il Paradiso; il Dante puer, quello della primissima infanzia, lo si ritrova mano a mano che egli s’innalza verso gli estremi gradi del linguaggio, là dove il linguaggio non può reggere la tensione di ciò che deve esprimere. Nella vicinanza di Dio, nel Paradiso, negli ultimi canti, il linguaggio in realtà viene proiettato di fronte a se stesso, dato che si postulano come presenti esperienze sovrumane (non umane). Dante ha tuttavia realizzato il suo Paradiso-paradiso, e almeno è riuscito a porlo come problema non solo espressivo ma addirittura linguistico; ha dovuto affrontarlo come problema di esperienza sua personale e di esperienza poetica. In quel vuoto di riferimenti si accampano i numerosi paragoni presenti in tutta la parte terminale della Divina Commedia, che riconducono «all’infante/che ancor bagna la lingua alla mammella». E non si può non ricordare l’inizio XXV Paradiso, in cui pare che il poeta abbia affrontato il suo onere cosmico solo per poter rientrare nell’ amata Firenze, nel fonte battesimale, nel «bello ovile» dove aveva dormito agnello. Agnello: animale e insieme simbolo divino. In quei versi, la massima funzione morale e sociale del poeta come adulto, è consapevolmente affiancata al modo di essere, anzi al «desiderio» dell’infante, e in ultimo ricondotta ad un’ animalità che è insieme biologicamente «calda» e archetipico-simbolica. Anche Saba mette il suo «adultismo» al servizio di questa «puerilità», di quest’infanzia senza
tempo, al di là del piccolo Berto, e fino a ricollegarsi agli animali. Ma, come si accennava Saba si trova al polo opposto di Dante: alle prese cioè con una lingua (e con un’epoca) sempre più «tristi», autodistruttive, mentre Dante creava addirittura una nuova lingua, stava nell’inizio di un nuovo tempo, di una nuova nazione.
(da Andrea Zanzotto, Per Saba in Fantasie di avvicinamento, pagg. 365-367, Mondadori, Milano 1991)