L'immagine di copertina ricorda la terra desolata dell'Africa, da associare senza difficoltà a quel deserto dei Tartari di Dino Buzzati con il quale condivide e il concetto di (assenza di) tempo e le riflessioni sull'uomo, oltre alla caratterizzazione simbolica. Il contesto di riferimento è quello della colonizzazione italiana in Etiopia degli anni '30, a fare da sfondo a delle tematiche personali così care al singolo individuo da privarsi dei concetti di spazio e tempo.
"Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo, non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla."Non leggevo un libro così da molto tempo. Un libro così intenso, così profondo, così "superficiale" (perché scava nella natura senza essere retorico)...così esistenziale. Un libro così. A fare di "Tempo di uccidere" un "libro così" è la capacità di dare vita alle tensioni dell'animo umano attraverso la concretezza di una realtà come quella africana che perde ogni connotato di esotismo. Una terra selvaggia (l'Africa) e una situazione di pericolo (la guerra) declassati dal problema individuale (la paura della morte che genera nuova morte) e azioni anti-eroiche e quasi ridicole. Protagonista di tali azioni è un giovane ufficiale che racconta la sua storia partendo da un punto così come avrebbe potuto partire da un altro (o forse no?); di ciò che ne è stato prima non sappiamo nulla, di ciò che ne sarà dopo neanche. Un camion ribaltato, una strada sbagliata, un mal di denti da curare: la storia procede selvaggia come gli indigeni di quella terra, libera di crearsi pian piano sotto l'effetto del caso, che, agli occhi contaminati del protagonista, appare come un altro preciso destino. La guerra descritta non è quella gloriosa dei soldati, ma quella infima del singolo individuo, che gradualmente assume proporzioni più grandi fino a rivelarsi una lotta per la sopravvivenza. La paura, la solitudine, la coscienza, la morte, il ricordo di Lei: l'amore che genera altro amore e l'amore che genera il male. Dov'è il confine tra bene e male in un "deserto dei Tartari" che sfugge alle leggi della civiltà? Dov'è il confine in una terra priva della categorie di tempo e spazio, governata solo dalla natura? Il tempo si annulla perché non esiste tempo quando non c'è nessuno a calcolarlo e l'orologio da polso del protagonista diventa l'emblema della memoria, di una Storia che si racconta anche senza tempo. Flaiano illustra il processo di trasformazione di un uomo estraneo alla sua natura, fagocitato da una terra libera e indipendente nelle sue leggi quanto governata e prigioniera nelle leggi degli altri, terra che diventa simbolo della coscienza e di un'identità che prende vita. Terra senza tempo, senza destino, senza civiltà, senza bene, senza male, che influisce sulla storia raccontata, una storia senza nomi, senza un prima, senza un dopo, ma che conserva in sé individui e memoria. Senza nome è il protagonista così come la sua amata; con un nome comune a tutte le donne del villaggio quella creatura misteriosa che sarà causa di morte e di nuova vita. Senza nome sono il sottotenente, il maggiore, il dottore; gli unici nomi a ricorrere, oltre a Mariam, sono quelli del vecchio Johannes e del piccolo Elias: passato e futuro di uno stesso presente. Con i suoi sette capitoli e un linguaggio immediato che raggiunge picchi di autentica poesia, "Tempo di uccidere" è uno di quei libri che non si può vivere senza aver letto. Richiami metanarrativi, accennati e mai eccessivamente densi, contaminazioni comportamentali tra indigeni e civili, la paura di essere contagiati da quella terra e della sua lebbra, che rimane sulla pelle anche senza macchie, e una Bibbia la cui utilità si riduce a pezzi di carta. "Tempo di uccidere" è una storia da ricostruire, il cui valore risiede nella perfetta sincronia dei suoi splendidi frammenti, che si inabissa nella natura più selvaggia dell'uomo e della terra.