Ennio Mazzon è parte attiva della scena elettronica italiana da diversi anni, nella doppia veste di artista e produttore. Xuan è la sua pubblicazione più recente, un lavoro particolarmente ispirato che si inserisce senza problemi tra le uscite più interessanti di questo 2013. Non potevamo dunque scegliere momento migliore per fare una bella chiacchierata con questo sound artist veneto, che ha saputo distinguersi per il suo attento studio del suono e per la spiccata abilità con cui lo manipola digitalmente.
In che modo nasce un disco come “Xuan”? Ti andrebbe di introdurci questa tua ultima produzione?
“Xuan” è un disco fatto di frammenti. Frammenti di suono digitale e registrazioni ambientali, frammenti melodici di strumenti convenzionali e di ritmiche elettroniche.
“Xuan” è fondamentalmente un tentativo di far coesistere in modo estemporaneo molteplici tipologie di suono in un unico spazio, un unico contenitore. Lo spazio in questione è uno spazio digitale, in quanto le coordinate di riferimento di questo lavoro sono essenzialmente radicate nella computer music. “Xuan” nasce all’interno di un computer, è l’output di un software, una patch maxmsp su cui ho lavorato nel corso degli ultimi due anni.
Tutti i suoni presenti nel disco sono stati ottenuti tramite una serie di improvvisazioni e rielaborazioni successive. È stato un processo lungo – registra, modifica, taglia, sovrapponi, ricicla – che gradualmente ha (ri)definito la struttura finale di “Xuan”. Non è del tutto corretto parlare di struttura “finale” in quanto considero “Xuan” un’opera aperta, la fine non è altro che un punto di inizio per ulteriori rielaborazioni che, soprattutto durante l’improvvisazione live, portano a scoprire quel “moto perpetuo informatico” che di volta in volta contribuisce a generare un lavoro come “Xuan”.
“Xuan” si compone di un’unica lunga traccia, una forma che hai adottato già in passato. A cosa è dovuta questa tua preferenza per le composizioni così articolate?
La durata dei miei brani non è tanto una scelta artistica quanto una esigenza strutturale legata al workflow che adotto durante la registrazione del disco: solitamente i miei brani nascono da improvvisazioni che possono essere anche piuttosto lunghe e articolate. La suddivisione del lavoro finale in brani di cinque o sei minuti mi sembra a volte una forzatura non giustificata che cerco di evitare.
A cosa si riferisce il nome “Xuan”?
“Xuan” deriva da “Xuan paper” ossia, carta di riso. Questo titolo non ha alcun significato strettamente riconducibile al suono del disco. La scelta del titolo è legata ad un legame affettivo che associo a questo tipo di carta. Inoltre devo ammettere che la scelta è ricaduta su “Xuan” anche perché ha una certa assonanza con il nome della mia band preferita, Xiu Xiu.
Ci puoi dire qualcosa sulla tua formazione musicale e i motivi che ti hanno portato a intraprendere questo percorso sonoro?
I miei ascolti di formazione hanno ben poco a che fare con l’elettronica: Jesus Lizard, Shellac, Tool, Isis, Neurosis, Mogwai, Slint… sono sempre stato attratto dai generi musicali ibridi e dalla sperimentazione, tuttavia inizialmente avevo una certa avversione per qualsiasi tipo di suono elettronico che per fortuna svanì completamente nel momento in cui un amico mi fece conoscere gli Autechre. Iniziai quindi ad appassionarmi alla musica ambient/sperimentale grazie anche al catalogo di etichette come la Warp e la Neurot Recordings ma fondamentalmente i miei ascolti restavano di matrice rock. E stato il disco “Oceanic: remixes/reinterpretations” (Hydrahead) a farmi conoscere i lavori di Fennesz e Tim Hecker, e fu proprio con l’ascolto di Haunt Me, Haunt Me Do It Again dell’artista canadese che sentii lo stimolo di “fare musica con il computer”. Iniziai a lavorare con sequencer ed effettistica digitale senza però avere piena consapevolezza a livello teorico di quello che stavo facendo. La cosa mi infastidiva non poco e infatti ben presto abbandonai completamente l’approccio. Iniziai a studiare seriamente computer music e digital signal processing: la mia introduzione fu il libro “The Theory and Technique of Electronic Music” di Miller Puckette e contestualmente iniziò anche il mio lavoro di programmazione (con Pure Data, Maxmsp, Processing e Supercollider) basato principalmente sullo sviluppo di applicazioni software che mi permettono di realizzare una gestione del suono basata sulla definizione di macro scenari sonori da elaborare e combinare, senza però avere i vincoli e la direzionalità forzata a senso unico che implica una struttura a timeline tipica di un sequencer.
Nella tua discografia si possono forse distinguere due periodi: da una parte c’è l’elettronica ambient ricca di melodie di The Possibility Of Joy e In An Undertone At A Loose End, dall’altra i profili rumorosi e matematici di Azure Allochiria e Xuan (oltre i vari lavori con Zbeen). Concordi? Ci potresti spiegare un po’ questa diversificazione sonora?
La distinzione di questi periodi che hai evidenziato è assolutamente corretta. I miei primi lavori erano melodici/ambient, erano lavori a sviluppo lineare che hanno pochi punti di contatto con quello che ho fatto con maggior consapevolezza in seguito. Questa diversificazione sonora non è altro che il risultato di un percorso di studio e approfondimento che mi ha spinto ad utilizzare un metodo di lavoro più articolato e di conseguenza forme espressive diverse.
I tuoi lavori sono stati pubblicati da diverse etichette (anche internazionali) come Triple Bath, Entr’acte, Cronicaster, Impulsive Habitat. Per Xuan ti sei invece prestato a una formula tutta italiana, con la Nephogram di Franz Rosati. È stata una tua scelta consapevole che avevi già in mente da tempo o si è trattato di una questione di coincidenze?
Nephogram e Franz Rosati sono sempre stati per me dei punti di riferimento. Quando in Ottobre dello scorso anno sono stato invitato a partecipare al festival MainOFF a Roma, ho proposto un live set improvvisato che riassumeva i contenuti di un lavoro che in quel momento era in fase di mastering e che a breve sarebbe diventato proprio “Xuan”. Non avevo idee precise in merito all’uscita di questo lavoro, ma quando Franz mi ha proposto un release su Nephogram non ho esitato e gli ho proposto il mio disco. Non so quindi se si tratti di una semplice coincidenza, ma l’uscita di “Xuan” per Nephogram mi sembra un po’ come l’ultimo pezzetto che mancava per completare il puzzle.
Per il mastering del tuo nuovo disco ti sei affidato a James Plotkin, professionista a cui si rivolgono sempre più musicisti italiani. Perché proprio lui? Conosci i suoi lavori da musicista?
“Xuan” è un disco che è nato con parti molto dense e saturazioni piuttosto estreme e volevo mantenere queste caratteristiche nel master finale. Il lavoro di James Plotkin è stato ottimo: è intervenuto solo in alcuni punti regolando il contenuto armonico del brano in modo da farlo suonare ancora più “fisico”. Conoscevo il tipo di suoni con cui Plotkin generalmente lavora e la scelta di rivolgermi a lui è stata naturale ed immediata.
Conosco bene anche i suoi lavori da solista – il brano “Amfetamin” (da “Indirmek”, Utech Records) lo trovo per certi versi molto simile a “Xuan” – e i suoi numerosi progetti (Lotus Eaters, Phantomsmasher, Jodis…) sono tutti davvero molto molto interessanti.
In febbraio eri a Venezia per un evento che hai condiviso con Lĕmŭres e Nicola Ratti. In Veneto sembra esserci una scena elettronica molto ricca e attiva, dove non mancano le occasioni di collaborazione tra i suoi esponenti (per non parlare poi delle varie etichette locali). Quali sono le ragioni di questa tendenza, secondo te? Che idea te ne sei fatto?
In effetti in Veneto c’è molto movimento rispetto ad altre regioni, ma non parlerei di scena elettronica, in quanto tutti ci muoviamo in solitaria seguendo strade abbastanza diversificate. Le collaborazioni e le occasioni di confronto tra musicisti ed etichette ci sono, ma si tratta per lo più di punti di contatto estemporanei.
Parliamo di Zbeen. Com’è nata la tua collaborazione con Gianluca Favaron? E soprattutto, in che direzione sta andando?
Ho conosciuto Gianluca tramite Enrico Coniglio e la collaborazione è nata su proposta di Gianluca, lavorando sul materiale che in seguito è diventato Stasis, l’album pubblicato per Entra’cte.
Stasis è stato realizzato lavorando sull’editing di registrazioni di varia natura: field recordings, drones e glitch digitali. È stato un lavoro di assemblaggio ragionato e la costruzione del contenuto ha seguito degli schemi classici. In seguito invece abbiamo cambiato completamente il nostro modo di lavorare infatti i dischi successivi K-frame e Eigen sono il risultato di un lavoro di destrutturazione sonora che punta all’annullamento di qualsiasi forma di linearità all’interno dei brani. Il nostro lavoro è oggi fondamentalmente basato sull’improvvisazione, “suoniamo” semplicemente i nostri strumenti digitali (custom software sviluppati con maxmsp) rincorrendo pattern generati dall’interazione di flussi sonori indipendenti.
La scelta di utilizzare field recordings ha più a che vedere col tuo legame con la tecnologia o sei uno che s’è imbattuto nei mondi di Pierre Schaefffer e altri avanguardisti?
Per quanto mi riguarda il field recording è semplicemente un mezzo per catturare delle fonti sonore da rielaborare digitalmente. L’interesse per l’ecologia acustica e gli studi legati al paesaggio sonoro sono dei piacevoli effetti collaterali di questa mia necessità.
Ti andrebbe di spendere due parole sulla Entr’acte? La possiamo considerare l’etichetta ideale per Zbeen, anche se in Italia viene tenuta in poco conto.
Entr’acte è sicuramente una delle etichette che seguo con più interesse. Ho conosciuto Entr’acte grazie al bellissimo disco Repeated In An Indefinitely Alternating di Nokalypse (un artista greco che ha pubblicato un lavoro anche sulla mia label Ripples) e rimango continuamente affascinato dalla qualità delle produzioni di questa etichetta. Helena Gough, John Wall, Haptic…il catalogo Entr’acte è pieno di artisti che ammiro e molti lavori sono stati e restano per me dei punti di riferimento importanti. Il catalogo è molto eterogeneo, ma le coordinate sono sempre quelle: elettronica sperimentale.
Credo che Zbeen si introduca perfettamente in quella che è l’estetica di Entr’acte e ovviamente mi farebbe molto piacere avere l’opportunità di collaborare ancora con questa label.
Classica domanda sul rapporto analogico/digitale: cosa ne pensi e, più in generale, qual è il tuo approccio alla composizione?
Lavoro con linguaggi di programmazione pertanto il mio ambito di riferimento è totalmente digitale, i miei strumenti e la mia musica nascono e si sviluppano completamente all’interno di un computer e sono contento sia così, non sento la necessità di avere altre macchine o strumenti su cui fare affidamento. Mi sembra di avvertire chiaramente che la tendenza in questo periodo sia quella di dare maggior credito a chi fa musica con mezzi analogici, la cosa non mi infastidisce più di tanto, ma trovo che ci sia una visione un po’ superficiale e distorta della questione. Sono d’accordo che l’atto di creare una patch con un synth modulare sia molto più affascinante e stimolante di fare click-click con un mouse. Il punto è che quel click, quel gesto sterile dell’artista digitale, può potenzialmente nascondere concetti, idee e soluzioni raffinatissime. Si tratta quindi di due approcci diversi, e la competizione, se proprio bisogna vederla in quest’ottica, resterà sempre su due piani distinti.
Comunque per quanto mi riguarda dico soltanto che mi trovo completamente a mio agio a sviluppare musica e suoni inizializzando “cicli while”, creando oggetti, metodi e proprietà e in generale scrivendo codice.
Ti servi visuals nei tuoi concerti? Quanto sono importanti nel contesto? Si tratta certamente di un elemento molto usato di questi tempi, in Italia come all’estero, ma non sempre si rivela azzeccato.
Durante i concerti sono stato spesso accompagnato da live visuals ma non ho mai gestito la cosa direttamente. Attualmente sto lavorando per avere in futuro la possibilità di realizzare in prima persona un sistema completo audio/video da poter proporre in versione live. Sicuramente la scelta di usare video durante un live set è un’arma a doppio taglio, bisogna quindi valutare molto bene la tipologia del progetto e stabilire la reale necessità di una estensione visuale della proposta sonora.
Ti occupi anche della Ripples Recordings, etichetta attiva da diversi anni con cui hai pubblicato dischi piuttosto interessanti (vengono in mente No+ICS, Franz Rosati, Zbeen,…). Come procede? Novità in arrivo?
Nell’ultimo anno l’attività dell’etichetta è stata rivolta soprattutto al progetto Zbeen di cui faccio parte, in quanto ho sentito la necessità e l’urgenza di pubblicare questo materiale su cd in tempi ragionevoli e di avere la possibilità di curarne tutti i dettagli. Per quanto riguarda i programmi per il futuro c’è solo l’uscita (in digitale) di un album di Philippe Lamy, pittore e sound artist francese, che dovrebbe essere pronto entro la fine dell’estate.
Cosa ti ha spinto a creare un’etichetta per conto tuo?
Ripples è fondamentalmente la concretizzazione della mia personalità artistica. Ci sono dischi a cui ho partecipato, dischi che ho realizzato completamente, dischi di altri artisti che ho trovato interessanti e che mi hanno influenzato. Ripples non ha nessuna finalità specifica se non quella di raccogliere suoni e progetti che in qualche modo mi accompagnano e sono per me importanti e fonte di stimoli.
Ci puoi dare qualche anticipazione riguardo i tuoi prossimi lavori?
Sto lavorando molto con Processing per la realizzazione di visuals e parallelamente sto sviluppando nuovi strumenti digitali. Non penso al disco come prodotto finale, sono più interessato al processo che porta alla realizzazione di applicazioni software che generano suono, il disco è qualcosa che nasce in un secondo momento.
Grazie per la disponibilità. Sentiti libero di aggiungere quel che preferisci.
Grazie a te e a The New Noise per l’interesse dimostrato nei confronti nel mio lavoro e dei miei progetti.
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