Enrico De
Lea mi manda questo "manoscritto" che, da quel che ho capito, sarà il
co
- una ancora marcata prevalenza del linguaggio come autentico "personaggio" della scrittura, come cordone ombelicale, ancora di salvezza, ragione di poesia, recupero di identità e altro ancora, come ad esempio il ri-radicarsi in una cultura che è "sua" ed insieme altra, lontana, irriproducibile. E quindi sostanzialmente nostalgica. Ma qui la lingua, se possibile, si fa ancora più alta, a tratti solenne nel suo incedere, quasi aulica.
- un marcata assenza di qualsiasi influenza o ispirazione di carattere per così dire urbano. Questo concetto si lega da una parte a quanto detto sopra, dall'altra a quella "distanza" che segnalavo nelle note precedenti, distanza tra terra natia e terra di lavoro, distanza tra culture (e marcata dall'acculturamento dell'autore), distanza geografica, distanza tra linguaggio "normato" e linguaggio emotivo e degli affetti. Di concerto, il paesaggio non può che essere quello della terra natia, non certo quello lombardo (e il paesaggio è espressamente richiamato dall'esergo di Willem de Kooning: "Poi giunge un momento nella vita in cui si esce a fare una passeggiata, semplicemente. E si cammina nel proprio paesaggio"). Ancora, quindi, il nostos, inteso in senso - qui - più ampio.
- all'opposto della distanza (ma non in maniera contraddittoria) c'è anche qui quell' "avvicinamento" (alla cose, ai luoghi, agli emblemi, ai simboli) che marcava Da un'urgenza della terra luce (rimando ancora a quella nota), come un accostarsi di bolina a una riva familiare e indimenticata, un'Itaca perché no, che si vede avvicinarsi o riallontanarsi per qualche malevolo capriccio degli dei. Scrivevo allora: "Va da sé che ad ogni radicamento (od ossessione) corrisponde uno spaesamento, un luogo anche mentale in cui si "sta" ma non si "è", un luogo che si cassa accuratamente dalla propria poesia e forse dalla propria biografia perchè la felicità è "laggiù" e "a quel tempo". E da questo punto di vista la poesia di De Lea, se posso azzardare, è decisamente antimoderna o se volete felicemente strapaesana". Lo confermo, precisando, se non fosse chiaro, che per quel che mi riguarda si tratta di un elemento di valore aggiunto.
- una ancora forte "condensazione" (sì, proprio in senso freudiano) del linguaggio nonchè dell'immaginazione e del ricordo, continuamente ricostruito fino forse a "reinventarlo", che fa sì che i testi talvolta acquistino un'aura onirica, come qualcosa di sognato in quell'area speciale che è la creazione poetica, collaterale e in conflitto con il quotidiano, segnato invece da una lingua d'uso, corrente, normativa.
da Serpe di Laconia
(insula)
Nasìda, o romitaggio
istrionico, dal secco
assimila il modo dell'archetto,
famelica sua piaga da stilita.
Udendo il veto
nei veli parentali,
funge un greto barocco
per il santo acceso.
Nel fuoco degli intarsi, ritratto
ed onnipotenza del legno, erige
altare breve al morto,
lare di roccia, icona madre
al figlio.
(di passo)
Serrare di cavezza
innanzi ai cippi,
cadenzano il respiro
cavalcature aduse a fascinare
la prima alba degli occhi.
Puntuti al macinio,
terrazze trascorsero dai passeri
a un falco immaginario.
Sapendo di tempesta,
timore nel recinto, o malo augure.
(d'umore corporale)
Dalla consistenza della mappa
arborea s'affranca il causativo
ciottolo, marcito d'alga
a bagno d'acqua dolce.
Si raggruma, vortice delle unghie,
in pienezza di sale ed ara,
solca le zolle del viso,
la resa del vespro e della vigilia.
Monetine
alla superficie del derma,
ninfe arrosto.
(la Circe)
Non sospettava
una ratio scenica alla merce
del banco donnesco,
prospero per
dominio d'oblio.
Per trascuranza
d'odio ne inumava
l'ostessa angelo magàra
rediviva - oh,
fioritura dei vasi levantini.
(prospettiva dell'ascesa)
Dentro, nel corpo di, nel calco di
calcaree divinità sostantive,
degne del lampo della sparizione,
si decide ora un vento,
la sua seta d'ascesa
da un arco di vicolo a tribona.
Questo, ovvero l'altro, sopravvissuto
monte dei dolori, il postumo
suo ciottolo si slega - era scalone -
all'aria prospettiva.
Dall'idea delle mappe qui si compie
la ventura inclinata dei muri
nella dimenticanza delle luci,
un'onda di diniego dai terrazzi,
specchi in frantumi tra fontane erose.
(la cura del mondo)
...l'infero di quell'ombra, tutta padre, intenta
a leggere al lume d'olio la cura del mondo
come una bagattella imprecisata, un salto
di bambino, dietro la scala in legno
tra un piano e il superiore, ed in silenzio -
il silenzio dell'intero Zorio - tra uno scalino, il primo
che tocca il cotto, e l'ultimo, che rinnova
la vista della collina e dell'antico mare,
tra un sansilvestro dormiente e l'accordo
unanime dell'apocalisse dell'annonuovo..
da Pause e licenze
(incerti passi nel paesaggio)
Neanche quest’anno è stata la ventura
D’oltrepassare il mondo della vecchia
Strada provinciale e andare all’alto
Sconfessando il cimitero panoramico -
Io e l’amico dovevamo andare verso
Antichi acciottolati, forse d’età romana,
Sul crinale dei piccoli dorsi montani
Da decenni divenuti terre ignote -
Sarà forse, non è stato, all’alba
Mi sono limitato a incerti passi
Della vista nel paesaggio dei padri
E delle madri – i volti incastonati
Tra gole e macchie di bagolari
O querce, o, a proprio sopravvissuto
Sfarzo, nelle isole argentee degli ulivi –
L’alba posseduta in via esclusiva
Con un mito di luce è stata danza
Della visione e vi ho tracciato volti
Presi da un ergastolo ignoto, da un esilio –
Con le piene essiccate il tempo estinto.
da Suffragi del bianco
all’apparenza, quella della morte
detta in vacanza, si sventolano dai fili
lunghi cotoni, partecipi dell’incarnato
che vuole cipria e lavanda, e vuole il vino,
ma quello buono, che fa sangue -
e poi diviene il bianco nascosto
di piante varie della macchia, un altro
verde apparire, e cieco al cielo dell’alba
incolore e tutta da colmare dei nostri riaccesi
segni, sensi, precipitosi indizi di vita...
da Respiro e confitemini delle acque
Condotta di trafori, segni
di scavi, immutato appare
il tracciato delle acque,
i canali dal cotto alla roccia,
come il lavatoio deserto
un nido di cotoni e sete,
uno scoperto altare di natura.
Lo coglie il respiro delle acque,
confitemini e commiato dal paesaggio,
da un’acqua provvisoria in basso,
da fontane arrese al consumato
tempo della mancanza.
Respiro che ultimo rasenta
e ripromette nascita, pietra
tra pietre levigate – conclude
e s’infinita.
E’ vero solo, si rammenta,
il corpo declamato degli umani
dopo la pioggia il pianto il seme
che ingravida i serri
dai luoghi alti nel passo della visione.
da Suono del vento primo
3.
La resistenza – del corpo – al sole meridiano
è contraddetta all’alba dalla fissità dell’aria
che si apre alito breve, in salita dal piano
alle vigne, sparite sulla timpa millenaria,
e ancora – il corpo – si vuole arcano
con tutta la vittoria della visione varia:
qui i morti ancora seminano concetti,
trovature-frutti da piante senza difetti.