Trasferito in Piemonte a Cuneo e a Carù, fu mandato poi in Francia, prima a Nizza e a Cape d’Antibes e infine a Mentone. Subito dopo l’armistizio, con il commilitone e compaesano Graziano Medori, riuscì a raggiungere Milano. Soccorsi entrambi e ospitati da una famiglia milanese che aveva perso un figlio in guerra, furono aiutati a disfarsi della divisa, rivestiti con abiti civili e fu regalata loro anche una bicicletta per affrontare, con un minimo di sollievo, il lungo viaggio di ritorno. Purtroppo, però, dovendo passare per strade secondarie, accidentate, tra campi e viottoli, la bicicletta si ruppe quasi subito e dovettero proseguire a piedi. Arrivarono in paese dopo 35 giorni di cammino, il 12 ottobre, festa di San Serafino, santo paesano, rischiando più volte di essere presi.
Per prudenza, non conoscendo la situazione, si diressero nella casa di Graziano Medori, che abitava in campagna.
Un fratello di Graziano, più tardi, riaccompagnò Enzo a casa sua, dove finalmente, alle tre di notte, potè riabbracciare la madre, il padre e la sorella Ivana.
Magro, coi capelli resi chiarissimi dalla lunga esposizione alle intemperie la madre, quasi incredula, volle accertarsi che quello era proprio il figlio, facendosi mostrare una piccola voglia che aveva all’interno di una gamba.
Nonostante i continui manifesti che intimavano ai giovani di presentarsi per l’arruolamento nell’esercito fascista repubblicano, Enzo rimase nascosto per qualche mese in casa. Un giorno giunsero in paese alcune camionette piene di repubblichini, alla ricerca di alcuni prigionieri inglesi fuggiti dal campo di concentramento di Fermo e qualcuno avvertì il comandante che c’erano in paese anche alcuni giovani nascosti per non arruolarsi. Enzo, Ninì Petrini e Serafino Conti scapparono insieme verso la campagna, nella speranza di raggiungere il fiume Ete, dove era più facile trovare nascondigli. Mentre attraversavano di corsa un tratto di strada scoperta furono raggiunti da alcune raffiche di mitra. Enzo Bassi fu colpito a morte, Ninì Petrini fu preso prigioniero e solo Serafino Conti riuscì a sfuggire alla cattura.
Era il 14 marzo 1944.
Tutto il paese prese parte al funerale di Enzo e alla sua memoria la cittadinanza dedicò una via.
da “La fine del tempo delle favole” di Stella Franceschetti – collana I quaderni di Stelletta
Ho riletto con piacere il quaderno di Stella, che lei stessa mi ha donato autorizzandomi a servirmene per questo blog, e questo passaggio, la storia di Enzo Bassi, cui è intitolata la via sotto piazza Mazzini, dove era la sede di Radio Veregra e dove tanto tempo ho passato da ragazzo, mi ha indotto, come era nell’intento dell’autrice, a riflettere. La storia la conoscevo perché me la raccontò anni fa mio nonno, che Enzo lo conosceva bene. Mio nonno, repubblicano integerrimo, antifascista fino all’osso, me la raccontò esattamente così, come l’ha riportata Stella dal racconto preciso della sorella di Enzo, Ivana. L’ho pubblicata su questo blog perché oggi più che mai credo dovremmo conoscerla, specie le giovani generazioni. Viviamo in un tempo in cui si tenta in tutti i modi di rivedere e revisionare la storia, di equiparare i repubblichini ai partigiani, di far credere che i crimini commessi dalle forze nazi-fasciste in Italia dopo l’11 settembre siano paragonabili ai crimini commessi da alcune frange incontrollate della resistenza. Viviamo in un tempo in cui vediamo sui nostri muri manifesti con raffigurati animali che somigliano a una svastica, e sentiamo gente parlare come se la svastica la stesse sventolando, gente che si dichiara fascista spudoratamente nonostante questo sia ancora un reato. Ingenuamente voglio credere che questa gente ignori la storia. Ma poiché la storia ha toccato in maniera così drammatica la nostra città, e non possiamo dire che il racconto di Ivana Bassi sia inventato, allora cerchiamo di farla conoscere questa pagina triste della nostra città, specie a questi giovani, perché traggano, per quanto possibile, l’insegnamento che la storia può e deve dare. Non ho grandi speranze. Ma non voglio arrendermi all’imbarbarimento della nostra civiltà.
Luca Craia
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