Credo sia quello che ho provato, ciò che alcuni chiamano “epifania”. Nel momento in cui ho realizzato che stava entrando in aula magna, che un capannello di hostess, telecamere e professori si era formato di fronte all’ingresso principale perché qualcosa – o meglio, qualcuno – stava per entrare in aula, è scattato. Qualcosa, non so cosa. Ho sentito, ho immediatamente realizzato, di trovarmi nel posto dove dovevo essere, esattamente lì per arrivare a qualcosa di più grande e non importava se per l’emozione che mi si è aggrovigliata in gola ho sentito le lacrime pungermi gli occhi e le mani sudare. Ero proprio lì, a incontrare qualcuno che mi ha condotta dove sono adesso, a realizzare d’aver atteso due anni per trovare me stessa e quello che voglio diventare. Non so trovare, sinceramente, le parole, quel che so è che la giornata di martedì scorso ha ribadito un concetto, preso a schiaffi quella vocina interiore che mi diceva di aver buttato nello scarico un sacco di tempo prima di capire dove volessi andare a parare e riempito il cuore della ferma convinzione di star percorrendo, passo dopo passo, tra incertezze e paure, la strada che è stata costruita apposta per me. E se c’è una cosa che può dimostrarlo, è incontrare qualcuno che quella strada la rende possibile, tramite la sua immaginazione e il suo saperle dar voce, stringerle la mano e sederle di fianco, aver l’onore di poterle chiedere tutto quello che ti passa per la testa e discutere dei suoi scritti e del lento e travagliato approdo all’italiano di chi in inglese ha vinto l’apice del vincibile, un Pulitzer. Di una ricerca di un’identità che sfugge, di una lingua da chiamare propria quando nessuna si sente come quella materna e fin da sempre ci si sente sdoppiati, tagliati a metà da quello che la società ti impone per andare avanti e quello che la famiglia vuole per tenerti indietro, ancorata a radici che probabilmente tue non sentirai mai. Condannata alla perenne insoddisfazione, al non sentirsi mai abbastanza per utilizzare quella lingua che per nascita ti spetta e che non riesci a mettere per iscritto, o troppo in colpa nel parlare, pensare, vedere il mondo attraverso quel cannocchiale che è reputato ed è il più importante del mondo.
C’è tanto, in Jhumpa Lahiri, da renderla un’ispirazione. Lo è il suo rendersi disponibile a dialogare con una platea di studenti che certamente non è abituata a trovarsi di fronte qualcuno di importante. Lo è la sua profonda umiltà che, pur avendo raggiunto vette non facilmente alla portata di tutti, non sicuramente all’esordio, le fa chinar la testa a un complimento. E lo è in quanto esempio di caparbietà, di una volontà ferrea nel raggiungere un obiettivo e impiegarci, senza mai centrare appieno il bersaglio, quasi trent’anni, tra cadute e momenti di desolazione, ma sempre con tenacia. Lo è stato, certamente, il modo col quale ha risposto alle domande e con cui ha tenuto la lectio magistralis: come scrittrice, come donna (ma dovrei dire, come persona), come amante della nostra lingua. Lo è così tanto che vi rimando ai link che trovate qua e là nel post (nei video su youtube compaio e la cosa mi terrorizza) perché ancora non so parlarne senza sentirmi riscaldare da una commozione a cui non riesco a dar voce. Il 21 aprile 2015 è stato uno dei giorni più belli della mia vita e lo è stato sotto una varietà di punti di vista: da studentessa, da amante delle lingue, da lettrice e affamata di letteratura, da futura professionista del settore; uno di quei giorni che porterò stretto nel cuore per sempre, con quel leitmotiv che mi ha accompagnato nei giorni precedenti e che si riassumeva in espressioni di incredulità miste a eccitazione e panico inspiegabili.
Perché, allora, dirvi tutto questo se dell’incontro con Lahiri parlo poco o niente? Perché oggi compio gli anni, non sono più una bambina e l’entrare nei ventisei mi sembra al tempo stesso una follia e una meraviglia. Da due anni, questo è sicuramente il compleanno migliore che abbia avuto: ho un obiettivo in mente, so quali sono i passi da percorrere per arrivarci e altri se ne aggiungeranno nel tragitto, e poco importa se oggi starò a lezione dalle otto alle otto senza aver un attimo di tranquillità. Sto sudando per quel che voglio, amo quel che faccio e una felicità tale non l’avevo mai provata, non quando tutto nella mia vita andava nella giusta direzione. C’era sempre qualcosa che stonava, una nota discordante con tutto il resto che mi impediva di esser soddisfatta. Quell’accordo saltato ero io, quel punto interrogativo a cui non riuscivo a venire a capo e che ha deciso di sciogliersi da solo, all’improvviso, diventando un’insegna lampeggiante. La strada non è spianata, ci sono buche che ancora non so come affrontare e che mi spaventano ma conosco l’obiettivo, e posso dire ora di conoscere me un po’ meglio. Vi siete mai sentiti smarriti? Be’, io negli ultimi due anni ho avuto l’impressione di esser congelata nel mio corpo e d’aver guardato dalla panchina, col gesso, i miei compagni giocare senza poter prender parte all’azione e se c’è una grande cosa che sette giorni fa ho capito è che la ferita è guarita, posso e devo scendere in campo e sono nell’esatto punto in cui devo essere, ma questo lo devo anche a voi, a quelli che hanno dato una possibilità al blog prima di andarsene, a chi invece è rimasto e lo fa silenziosamente e a coloro che trovano il tempo di lasciar un loro pensiero. Significa tanto, questo, per me e non lo dico abbastanza ma se sono quella che sono oggi, se ho così tanta fiducia in me – ancora traballante, ma credo di aver raggiunto quasi un buon equilibrio tra disfattismo e paure inconsce -, lo devo anche a voi ed è giusto che ogni tanto ve lo dica.
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