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Equazione di Drake e Paradosso di Fermi: come ignorare le complessità e dichiararsi padroni dell’universo

Creato il 03 settembre 2012 da Gifh

trashDurante l’estate del 1950 Enrico Fermi, uno dei padri dell’era atomica, insieme ai suoi amici Edward Teller, Emil Konopinski e Herbert York, stavano camminando sotto il sole caldo del Nuovo Messico per recarsi a pranzo nella caffetteria del Laboratorio di Los Alamos. Casualmente quel giorno la conversazione toccò l’argomento dei dischi volanti e secondo Teller, la chiacchierata fu piuttosto breve e superficiale su un argomento solo vagamente correlato ai viaggi nello spazio. Uno di loro aveva da poco visto una vignetta su The New Yorker che ritraeva alieni intenti a rubare bidoni dell’immondizia, e così discussero sul tema dell’ovvietà che i dischi volanti non siano reali.

Lo scambio di vedute immancabilmente sconfinò per un certo tempo nei tristi meandri della matematica, quando a un certo punto, come ricorda Konopinski, Fermi li sorprese con la domanda: “Ma dove sono tutti quanti?” Il suo modo forse troppo scollegato per dirlo innescò una certa ilarità tra i presenti, anche se era chiaro che il soggetto fosse la vita extraterrestre e secondo York, egli proseguì con una serie di calcoli sulla probabilità della vita umana, la probabile emersione e la durata di tecnologie avanzate e così via, concludendo sulla base di tali calcoli che l’evenienza di civiltà intelligenti a noi vicine poteva essere molto alta e che probabilmente siamo stati visitati da alieni molto tempo fa e per molte volte ancora. Questa conversazione informale è stata la base sulla quale è stata in seguito costruita la celebre equazione di Drake, un esperimento concettuale speculativo sulla statistica che tenta di esplorare matematicamente le probabilità di vita aliena intelligente in questa zona dell’universo e in questo periodo storico. Naturalmente la soluzione “reale” dell’equazione di Drake non è la risposta in sé, lo sono piuttosto le domande che essa può generare nel tentativo di risolverla.

Enrico Fermi era noto presso i suoi studenti per la sua abitudine di eseguire a mente stime di ogni tipo di grandezza. Una volta chiese ai suoi studenti quanti accordatori di pianoforte ci fossero a Chicago: il modo in cui calcolò la risposta assomiglia al tipo di ragionamento sotteso all’equazione di Drake. Fermi suppose che Chicago dovesse avere circa tre milioni di abitanti, e che circa una famiglia su venti dovesse possedere un pianoforte. Se la famiglia media è composta da cinque elementi e un piano richiede in media un’accordatura all’anno, e se un accordatore può eseguire due accordature al giorno per 200 giorni all’anno, allora Chicago ha bisogno di 75 accordatori. Il risultato è dato semplicemente dal prodotto dei fattori elencati, ma ammetto di non averli calcolati personalmente.

Fermi e i suoi amici azzardarono alcune risposte plausibili alla fatidica domanda, ad esempio le enormi distanze dello spazio vanificherebbero ogni sorta di viaggio interstellare, e quand’anche ciò fosse possibile, potrebbe non valerne lo sforzo per conseguirlo, oppure ancora che civiltà avanzate potrebbero non sopravvivere abbastanza a lungo per raggiungere il livello tecnologico sufficiente a decollare per compiere viaggi interstellari. Da allora sono innumerevoli i tentativi di proporre strane, nuove soluzioni all’ambiguo paradosso, alcune diventate best seller come il saggio di Stephen Webb, Fisico teorico e collezionista di soluzioni al paradosso di Fermi, tradotto in italiano con il titolo “Se l’Universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?” Certo, ogni soluzione è limitata dalla conoscenza acquisita e dalla nostra capacità di teorizzare, pur con tutte le astrazioni che ci sono concesse dalle nostre enormi limitazioni cognitive. La questione tuttavia non può privarsi di ogni sorta di complessità…

Oscure complessità

Il paradosso di Fermi insieme ad una delle sue soluzioni più accreditate, l’ipotesi della rarità della Terra (proposta tra l’altro da un paleontologo che apprezzo molto, Peter Ward, di cui ho anche scritto qui), risentono a mio avviso di una fallacia tipica degli esseri umani, ovvero ragionare in maniera troppo antropocentrica, e 49 soluzioni (+1) sarebbero anche troppo poche!
the_searchLa soluzione che trovo più ovvia risiede nei limiti spazio-temporali in cui siamo racchiusi, se confrontiamo l’età geologica del nostro pianeta con quella dell’universo scopriamo facilmente che la prima non è altro che una piccola frazione della seconda, e un rapporto ancora più elevato si ottiene confrontando il tempo in cui la Terra ha ospitato vita intelligente. Se poi si ipotizza che questa vita possa cessare da un momento all’altro per un’infinità di catastrofi diverse, si può arguire che le coincidenze che possano far incontrare due civiltà a portata di comunicazione siano davvero infinitesimali, nonostante l’abbondanza di esopianeti scoperti e ancora da scoprire!
Ragionando sempre sulla rarità della formazione di organismi superiori, e sulla (relativa) improbabilità di convergenze evolutive, ho trovato interessanti le teorie di Simon Conway Morris (anche grazie al suo sito) che limita l’evoluzione dei procarioti a pianeti di tipo terrestre che possiedono un satellite di tipo lunare, anche se perfino questa  sembra troppo “costruita intorno a noi”…
Alcuni, come Jack Cohen trovano queste assunzioni tipiche dei ragionamenti circolari, una sorta di petitio principii in cui ciò che deve essere provato viene supposto implicitamente nelle premesse, oppure quando le premesse sono la conseguenza stessa delle conclusioni.
Pertanto mi piace pensare che la vera questione potrebbe non essere il perché della rarità della Terra, bensì quale delle circostanze che hanno generato questa particolarità sia davvero essenziale per lo sviluppo della vita intelligente, e se davvero siano così essenziali al punto da precludere una tale evoluzione.

Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia. William Shakespeare, da “Amleto”

Il bello di queste immersioni nell’ipotetico è che si prestano agevolmente allo svolgimento di infinite partite di logica  di stampo scacchistico. Si potrebbe obiettare facilmente ad esempio che se partiamo dal presupposto della mediocrità terrestre, i limiti spaziotemporali della nostra esistenza non sono comunque una soluzione sufficiente, perché deve esistere qualche civiltà più avanzata di noi che ha avuto tempo, modo e voglia di inviare nella galassia almeno delle sonde esplorative. Tanto più è alto il numero di civiltà, quanto più e alta la probabilità di imbattersi almeno in una trasmissione se non in una sonda vera e propria.  Ma altrettanto facilmente ciò si potrebbe smontare con la relatività della simultaneità, o la precarietà della sincronicità quando non sono definiti i confini spazio temporali.
Mi spiego, per definire una certa probabilità è indispensabile conoscere il campo di esistenza, però anche se disponiamo di qualche indizio sulla nascita dell’universo, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare la sua durata, che potrebbe perfino essere ipotizzata con un tempo infinito. Forse possiamo speculare sulla fine del sistema solare, (a meno che non riusciamo a porvi rimedio prima, e ciò non è del tutto da escludere). Ma anche dopo il naturale corso evolutivo della nostra stella, nulla potrebbe impedirci di iniziare una diaspora galattica. Quindi nemmeno la durata dell’esistenza del genere umano può essere stimata con una certa accuratezza, e in questo caso sarebbe solo una questione di … pazienza!
Real-Life-Application-of-the-Drake-EquationSe poi aggiungiamo la possibilità di altri piani di esistenza, altre dimensioni, o multiversi (vedi Alan Guth ad esempio), le cose si complicano non di poco, e tutte a vantaggio della continua improbabilità che due civiltà evolute possano incontrarsi in un dato momento del loro percorso evolutivo.
E se fosse lo stesso paradosso di Fermi (e un equivalente teoria aliena) a impedire il contatto? Pensaci, se credessimo fermamente che non esiste nessun’altra specie nell’universo all’infuori di noi (e così anche le nostre controparti), potremmo ignorare bellamente ogni casualità che indichi l’esistenza di altri, anche se li avessimo sotto il nostro naso …

E se poi fossimo noi la civiltà più avanzata? Tempo, modo e voglia, sono anche altre variabili imponderabili, che presuppongono interesse nella ricerca di altre civiltà, come si può indovinare in quale scala di priorità questo problema sia rilevante per una specie aliena? Si entra così in una spirale di soluzioni che si frappongono ad un incontro più o meno intenzionale e fortuito.

La relatività della simultaneità è un concetto che mette in dubbio gli assoluti quando il sistema di riferimento (o campo di esistenza) dell’osservatore non è definito adeguatamente o esaurientemente. Inoltre questo concetto non si limita meramente al “non abbiamo ancora avuto il tempo”, ma include anche le seguenti limitazioni:
- un’eccessiva distanza nello spazio e nel tempo;
- un eccessivo dispendio di risorse per diffondere fisicamente la propria presenza nella galassia o tra galassie adiacenti;
- non è passato tempo sufficiente affinché due civiltà possano raggiungere la portata utile per comunicare bilateralmente.
In sintesi, la comunicazione (per ora) non è stata possibile per problemi di scala, o almeno questa è solo una delle soluzioni possibili e attendibili.

Tra le soluzioni più gettonate al paradosso di Fermi vi è l’ipotesi zoo che prevede l’esistenza di vita intelligente extraterrestre, anche in possesso di tecnologia avanzata, ma stabilisce che questa non entri in contatto con la vita sulla Terra per non perturbare il suo naturale sviluppo e la sua evoluzione. Ciò spiegherebbe l’apparente assenza di segni di vita extraterrestre nonostante le impetuose evidenze della loro esistenza, un atteggiamento conservativo ripreso più volte nella fantascienza, nell’universo di Star Trek vige ad esempio una Prima Direttiva che è proprio un impegno della Federazione alla non interferenza nei confronti di civiltà aliene che non abbiano ancora scoperto il viaggio interstellare. Una simulazione con il metodo Monte Carlo ha dimostrato che i primi rari eventi di contatto tra civiltà emergenti oltre il primo livello della Scala di Kardašëv potrebbero essere di lunghezza temporale analoga alle ere geologiche terrestri.

Chiaramente tendiamo sempre a confinarci nell’ipotetico rimanendo però costantemente entro i limiti della nostra esperienza e bagaglio storico-scientifico-culturale, riducendoci forse banalmente ad una questione di punti di vista e accreditamento (o addirittura fede) nell’una o nell’altra congettura, e molto probabilmente trascurando quello che invece dovremo realizzare e cioè che la nostra ignoranza è direttamente proporzionale alla considerazione che abbiamo del principio antropico.

Durante uno dei miei pellegrinaggi internettiani sul sito italiano del SETI ho trovato questa chicca che vi ripropongo:

Il Principio Rotiferico
rotiferI membri della Società Filosofica di Piccola Pozzanghera erano impegnati in un dibattito circa le possibilità d’esistenza della vita al di fuori di Piccola Pozzanghera. Aveva la parola un rotifero maschio di media grandezza di nome Philo, il più acceso sostenitore dell’ineguagliata eccellenza del loro ambiente come albergo della vita. Philo parlava agitando tre delle proprie numerose ciglia, producendo così onde sonore nell’acqua di Piccola Pozzanghera.
«È ovvio che la vita è impossibile oltre i confini di Piccola Pozzanghera. L’ambiente che abitiamo sembra fatto apposta per la vita. La sua acqua rimane sempre circa alla stessa temperatura, mentre anche un solo piccolo cambiamento di essa ci sarebbe fatale. L’equilibrio tra acidità ed alcalinità è esattamente quello giusto per gli esseri viventi grazie alle piccole quantità di nitrati e fosfati disciolte nell’acqua. Il fango sul fondo di Piccola Pozzanghera contiene l’esatta quantità di solfati necessaria al nostro metabolismo. Vi sono poi periodiche aggiunte di liquido a Piccola Pozzanghera, liquido contenente piccole quantità di composti di carbonio disciolti che usiamo per costruire i nostri corpi. Inoltre, anche le forme di vita inferiori che abitano Piccola Pozzanghera e che costituiscono la base della nostra nutrizione dipendono da queste stesse condizioni. Come potrebbero i benefici batteri metanogeni esistere senza il fango che li protegge dall’ossigeno esterno e fornisce loro le materie prime del loro metabolismo? Che ne sarebbe delle alghe che vivono sulla superficie se Piccola Pozzanghera fosse molto più vasta e dunque la superficie più lontana dal fondo melmoso? Può anche darsi che nell’universo vi siano altri mondi, ma è impossibile immaginare una forma di vita capace di adattarsi alle differenze esistenti tra loro e Piccola Pozzanghera. Noi rotiferi ci siamo adattati tanto bene a Piccola Pozzanghera che in qualsiasi ambiente che non possedesse le sue stesse qualità nella stessa esatta misura non riusciremmo a sopravvivere. Poiché noi costituiamo una parte essenziale dell’ecologia di Piccola Pozzanghera, se non sopravvivessimo noi ad un altro ambiente anche l’intera biosfera piccolopozzangherese non ci riuscirebbe.» E sentenziò: «Questa conclusione è inevitabile, la vita è possibile solo a Piccola Pozzanghera. Il resto dell’universo è sterile.»
Un altro rotifero si fece avanti per appoggiare ed ampliare le argomentazioni di Philo e disse: «Poiché è così, ne consegue che l’intero universo ha lo scopo di assicurare l’esistenza della nostra Patria. Se non ci fosse un avvallamento nella pietra circostante, Piccola Pozzanghera non si sarebbe formata e noi non saremmo qui a goderne. Se l’acqua gelasse ad una temperatura lievemente più alta, Piccola Pozzanghera si coprirebbe di ghiaccio e la pioggia nutriente che la feconda non potrebbe raggiungerci. Mediante una nuova idea che chiamerò “Principio Rotiferico”, sono in grado di dimostrare che le leggi di natura devono essere esattamente così come sono, e non altrimenti, se no non ci sarebbero rotiferi in grado di conoscerle. Ad esempio, se la temperatura di evaporazione dell’acqua fosse stata più bassa, dopo essere stata creata dalla Grande Pioggia, Piccola Pozzanghera sarebbe evaporata prima delle molte ore necessarie alla prima generazione di rotiferi per uscire dalle uova. E così se non fosse per la temperatura provvidenzialmente alta a cui evapora l’acqua, l’universo sarebbe privo di qualsiasi tipo di vita capace di filosofare su di esso.»

L’intera Società Filosofica di Piccola Pozzanghera applaudì questa brillante dimostrazione dell’intelligenza rotifera.
Nel frattempo, fuori da Piccola Pozzanghera, 1030 (10 elevato alla trentesima = 1 seguito da 30 zeri) esseri viventi continuarono tranquillamente a farsi i fatti loro in svariati ambienti terrestri, ignari del fatto che i rotiferi avevano dimostrato la loro non-esistenza.

Immagino che l’autore abbia caricato questa metafora con una (nemmeno poi tanto) velata chiosa polemica.
Il fatto è che anche la scienza più sana è (ed è sempre stata a mio avviso) divisa da una trincea frapposta tra chi si fa scudo di ciò che è noto (e pertanto ritenuto sicuro, comodo e confortante) e chi cerca di esplorare l’ignoto (atto precario e rischioso). I primi normalmente sono tacciati di conservatorismo e i secondi scherniti per l’avventatezza e classificati come eretici o pseudoscienziati, naturalmente sto ipersemplificando, lascerei fuori dal contesto truffatori, scienza patologica e ciarlataneria, come anche i nepotismi e le fedi dogmatiche.
Secondo me è proprio questa trincea ad essere contraria al progresso scientifico, e ci sono casi eclatanti fra i quali proprio l’ultimo premio Nobel per la chimica ad esempio.
Forse bisognerebbe trincerarsi un po’ meno dietro quelle inflessibili leggi della fisica che si sbandierano sempre come oro colato, per poi crollare qualora l’evidenza appare da una prospettiva diversa dal solito, in favore dell’esplorazione di quanto non è ancora chiaro e acquisito.
Ripartiamo da capo. Come può la nostra (infinitesima) conoscenza misurarsi con la vastità (pressoché infinita) dell’universo? A suon di statistica direi proprio di no, ma nemmeno è possibile dare le soluzioni al paradosso di Fermi solo con l’immaginazione…

Quindi, con gran spirito di riduzionismo, credo che la questione si limiti alla definizione del tempo necessario affinché possiamo dire con una certa sicurezza che l’universo sia completamente deserto. Forse è presto per una risposta definitiva… abbiamo appena capito che il DNA non può esistere con l’arsenico al posto del fosforo, inoltre scopriamo nuove forme di vita ogni giorno anche sulla Terra… E d’altra parte non siamo nemmeno ancora del tutto sicuri che nel nostro sistema solare non esistano artefatti alieni, almeno secondo questa ricerca di Jacob Haqq-Misra e Ravi Kumar Kopparapu pubblicata su Acta Astronautica e disponibile su ArXiv.

Sfuggire al paradosso

aliens01Anche supponendo che le probabilità siano attendibili (e per inciso per me non lo sono, in quanto come dicevo sono “costruite intorno a noi”), e trascurando il fatto che sia davvero necessaria la presenza concomitante di tutti questi fattori, facciamo un rapido calcolo:
raggio della via lattea ~50.000 anni luce elevato al quadrato per 3,14… fa circa 7.850.000.000 anni luce quadrati di superficie galattica, trascuriamo anche uno spessore medio di circa 1000 anni luce, otteniamo che, con una distribuzione equilibrata dei 10.000 pianeti (altro assunto speculativo), la densità dei pianeti con probabilità di vita intelligente è pari a 1 per ogni 785.000 anni luce².
La distanza massima che una nostra sonda ha percorso è appena di 0,00183 anni luce dal sole. C’è ancora bisogno che traggo le ovvie conclusioni?
Tanto per rendere più piccante la discussione, e con tutta la stima e il rispetto che posso riporre in Webb, non è detto che condivida le stesse “ragioni fondate” che ipotizza, e per me rimangono mere congetture.
Webb, e con lui anche Fermi (non parliamo nemmeno di Drake), hanno pontificato ciò che si definisce reductio ad absurdum, una forma di argomentazione in cui viene smentita una proposizione seguendo le sue implicazioni logiche verso una conseguenza assurda, quindi fallace in partenza e di nessun ausilio per un’ipotesi attendibile delle possibili specie senzienti disseminate nell’universo. Ah, no qui si parla solo della nostra galassia, ma tanto è uguale …

Il paradosso di Fermi Infatti ha una soluzione e non è mai stato un vero paradosso. Noi abbiamo erroneamente seguito la fallace direzione implicita della ricerca sull’intelligenza extraterrestre (SETI), cioè che la nostra evoluzione si espanderà indefinitivamente al di là delle stelle. Al contrario, dato che sistemi complessi trascendono all’interno di elevati livelli organizzativi, noi probabilmente troveremo molto poco con i soli sforzi del SETI, che dopo 50 anni ha esplorato solo una piccola frazione dello spazio alla nostra portata. Forse è questo il motivo per cui le autorità statunitensi sono così legate all’importanza del SETI, ma nello stesso tempo soffrono di acute tirchierie sui finanziamenti. Potrebbe sembrare strano domandarsi “Dove sono tutti?” e cercare nelle onde radio delle stelle quando i cosmologi ci dicono che il 96% dell’Universo calcolabile è disperso in una strana forma di materia ed energia oscura che non riusciamo a comprendere… Altri cosmologi immaginano che il nostro universo sia solo uno dei tanti (infiniti) possibili in un complesso multiverso che coesistono ma sono irrilevabili.

La domanda è: cosa ne facciamo di tutte queste possibilità? La risposta potrebbe essere che dobbiamo meravigliarcene ricordandoci, ancora una volta, che viviamo in un universo, in qualunque modo lo definiamo, che contiene più cose di quante possiamo iniziare a immaginare. Dopo 50 anni di SETI, il quale è stato dominato dalla ricerca di messaggi radio, adesso è giunto il tempo di agire e chiederci come implementare le nostre ricerche rendendole più inclusive. La ricerca di impronte di tecnologia aliena nel senso più generale del termine, contrapposta ai semplici messaggi, offre molte nuove linee di indagine promettenti ed economiche. La costruzione di grandi database che attraversano tutte le discipline coinvolte, dalla chimica alla fisica, fino alla biologia, che insieme potrebbero essere soggetti ad analisi dei dati in maniera trasversale, aprono il percorso a eccitanti possibilità.

DrakeL’equazione di Drake resta un modo conveniente di organizzare la nostra ignoranza sull’intelligenza o la tecnologia aliena, ma è necessario distinguere che l’incertezza che accompagna la stima di N, cioè il numero di civiltà comunicanti, è completamente dominata dall’incertezza di fl, ovvero la frazione dei pianeti simili alla Terra sui quali emerge la vita. Fino a quando non sapremo con certezza il meccanismo per il quale la vita si è originata dall’inorganico, non possiamo calcolare le probabilità di biogenesi, quindi fl rimane indeterminabile. Questo rende ogni stima di N assolutamente controversa e discutibile. Quindi il SETI non solo è una ricerca assimilabile a quella di un ago in un pagliaio, ma è una ricerca priva di qualsiasi indizio sulla posizione nel pagliaio dell’ago, sulle dimensioni dell’ago e perfino del pagliaio, o addirittura se l’ago esiste davvero o esiste in un tempo non sovrapponibile al nostro. Per questo, mentre aspettiamo pazientemente che il SETI continui nella sua storica impresa, il progresso più importante che potremmo compiere verso la comprensione dell’ubicazione della vita intelligente nell’Universo è quello di restringere le barre di errore di fl, che attualmente potrebbe assumere qualunque valore compreso tra 0 e 1.

Un tentativo meritevole potrebbe essere quello di andare in cerca di genesi multiple della vita sulla Terra, forse nella forma di una “biosfera ombra” ancora esistente. Se trovassimo una forma di vita aliena sulla Terra (aliena nel senso di appartenente a un albero della vita con origini distinte), allora non potremo più argomentare che flè prossimo a zero, in quanto sarebbe molto improbabile che la vita sorga più di una volta su un pianeta come la Terra mentre stenta ad affermarsi su tutti gli altri pianeti simili al nostro di cui oggi ne vantiamo la consapevolezza.

Per finire con una nota filosofica, le ramificazioni di questo slittamento nei punti di vista sono immense. Da quanto possiamo apprendere da un singolo esempio di vita, è possibile arguire che la biologia è una strana aberrazione localizzata, il prodotto fortuito di una catena di reazioni chimiche così improbabile da non poter ricorrere in nessun altro luogo dell’Universo visibile. Sebbene alcuni singoli esseri umani possano impregnare di significati le proprie vite, la vita nella sua interezza sarebbe una collezione di strani sistemi fisici, ristretti ad un infinitesima toppa cosmica. Per converso, se la vita fosse un imperativo cosmico che emerge più o meno automaticamente in multiple posizioni, allora potremmo dire che l’universo possiede intrinsecamente leggi fisiche che consentono la vita, al punto che essa può essere riconsiderata come detentrice di un significato universale. Se inoltre otteniamo l’evidenza di tecnologia aliena, allora non solo la vita, ma anche l’intelligenza potrebbe essere ritenuta come fondamentale, in contrapposizione ad un triste fenomeno cosmico del tutto “accidentale”.  Pur essendo a casa nostra nel nostro universo come ammicca il fisico John Wheeler, non è detto che i vicini non esistano perché non siamo capaci di vedere oltre le nostre pareti…

E ora un po’ di humour nerd!

Altre letture consigliate:

Calcolare Le Probabilità Di Vita Intelligente Aliena: L’Equazione Di Drake di Annarita Ruberto – Scientificando

Progetto SETI: ricerca scientifica o solo tanta buona volontà? di Paolo Pulcina – Chimicare

La barriera di Hubbert: ripensare al paradosso di Fermi  di Ugo Bardi – Effetto Cassandra

Quanto è rara l’origine della vita? di Amedeo Balbi – Keplero

Il paradosso di Fermi – Incrediblebuttrue

Il contatto con extraterrestri sarebbe favorevole o dannoso all’umanità? Analisi di alcuni scenari di Seth D. Baum, Jacob D. Haqq-Misra & Shawn D. Domagal-Goldman – Acta Astronautica 2011

Where Are The Extraterrestrials? The People Speak… di David Brin – Science 2.0

Escaping Fermi’s Paradox di Russ Haywood

Will we ever… find life elsewhere in the universe?di Phil Plait – BBC.com

Christian de Duve (2011). Life as a cosmic imperative? Phil. Trans. R. Soc. A DOI: 10.1098/rsta.2010.0312 ResearchBlogging.org

P.C.W. Davies (2012). Footprints of alien technology Acta Astronautica DOI: 10.1016/j.actaastro.2011.06.022

Jacob D. Haqq-Misra, & Seth D. Baum (2009). The Sustainability Solution to the Fermi Paradox J.Br.Interplanet.Soc.62:47-51, 2009 arXiv: 0906.0568v1


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