Non sappiamo se il guappo di Firenze recederà dall’intenzione di nominare per acclamazione dei soliti 111 Veltroni presidente del partito, ma certo chi meglio di er Coca Cola potrebbe ricoprire quel ruolo tutto bollicine nella delicata fase della transizione verso il partito unico che si sta allestendo. Lui, quello del partito liquido, lui quello che aveva scelto di condurre una campagna elettorale senza mai nominare l’antagonista, non per demonizzarlo, no, ma per non fargli pubblicità come se il padrone di partiti, giornali, televisioni, case editrici, agenzie di advertising, supermercati, quartieri potesse aver bisogno della propaganda del “nemico”. Lui, padre putativo ideale del Job Act, lui che anticipando le larghe intese esplicite, realizzava quelle sottobanco con Sacconi e Brunetta promuovendo una aberrante condizione di parità tra operai e imprenditori, lui che col partito pigliatutto e prima di tutto Calearo e Ichino, ha messo sullo stesso piano sfruttati e sfruttatori, riservando, è naturale, un occhio di riguardo ai padroni, che “danno il lavoro” e anche i finanziamenti elettorali.
Uomo del “territorio” anche lui, anche lui sostenitore della formula premier come il sindaco, anticipatore del partito dei sindaci, in modo da gettare le basi per l’assoluta garanzia di offrire agli elettori un leader che assolve male tre compiti il segretario, il premier e pure l’amministratore. Difficile crederlo, ma perfino allora erano meno sgangherati di oggi, così a malincuore er Coca Cola fu costretto a scegliere per ragioni di opportunità, che per il Panariello del pd coincide con opportunismo, la segreteria, ma prima di concedersi alla politica nazionale abbiamo conoscenza di generosi regali a un segmento specifico dei cittadini di Roma, gli imprenditori appunto e del mattone.
Il convinto affossatore di qualsiasi legame con la sinistra, rifiutata come una malattia vergognoso, il grande becchino di un organismo già affetto da entusiastico oblio di radici, memorie, destino e missione, può a buon titolo essere il più qualificato e generoso impresario della sepoltura dei partiti, per contribuire a dare forma a un monolite che ignora il mondo fuori di sé, un sistema oligarchico che dopo essersi spartito lo spazio e le risorse pubbliche può finalmente dedicarsi alla propria conservazione e riproduzione di ceto.
La fase preparatoria era stata probabilmente concordata: due partiti che si spartiscono il potere a tutti i livelli anche territoriali, oltre che i mezzi per tenere in piedi la macchina organizzativa e elettorale, che competevano con programmi poco difformi, evitando lotte distruttive per conservare potere e rendite di posizione, comportandosi come vigilantes davanti a cancelli che proibiscono l’accesso ai nuovi arrivati. Lo strumento, il gate, il pistolone intimidatorio a tracolla, era una legge elettorale sul cui modello sarà confezionato l’Italicum. Come d’altra parte era stato previsto dagli analisti del disincanto democratico: “l’organizzazione da mezzo per raggiungere uno scopo diviene fine a se stessa”, a prescindere “dalla passività spirituale delle masse”. Perché l’altra condizione necessaria, insieme all’obsolescenza di ideali, valori, principi consisteva nel far regredire i lavoratori a massa, ricattabile, impoverita di diritti, resa insicura dall’incertezza alimentata e nutrita proprio al fine di consolidare paura e servitù.
Il nuovo corso del capitalismo, visto dagli amerikani tra noi come una fase magnifica e progressiva, è stato davvero efficiente nel sottrarre le risorse utilizzate in passato per la redistribuzione delle risorse, nello smantellare lo stato sociale, nel rompere il fronte dei lavoratori, tramite le delocalizzazioni, le ristrutturazioni, i subappalti, promuovendo la precarizzazione con l’effetto di ridurre le antiche concentrazioni rappresentative e sgretolando la coesione e la solidarietà.
La partecipazione al potere rende conservatori coloro che vi sono giunti, ha detto qualcuno. Ma qualcuno conservatore c’è nato, vuol continuare ad esserlo per perpetuare il suo stato, la sua condizione, così che la loro crescita si riduce alla questione personale e privata di assicurare solo l’aumento delle loro prerogative, l’incremento dei loro privilegi, il rafforzamento delle loro rendite, l’accrescimento della loro influenza dinastica. Guardiamo a loro come a una famiglia, nonni putativi, nipoti eccellenti, zii autorevoli, padri nobili, pregiudicati e eredi spregiudicati. È meglio se restiamo orfani.