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Non passerà alla storia il pezzo odierno della rubrica di Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Il pungente (quando vuole) critico televisivo si è occupato di The R.U.N. (sarà perché è un prodotto di casa Rcs?), presentata come la prima docu-fiction sul mondo della corsa. Una produzione Rcs Sport prodotta da Bigberry-Carito&Partners in onda da giovedì scorso su RaiSport1 che ha seguito otto runner - scelti dopo l'immancabile casting volto a mettere insieme personaggi da raccontare - partecipanti al circuito di running, organizzato guarda caso da Rcs Sport, THE R.U.N POWERADE.
Questa docu-fiction è un prodotto che al 99,99% non passerà di certo alla storia e di cui non si sentiva la mancanza. Non perché sia mal realizzata (Grasso trova da ridire in maniera molto soft solo sulla figura dell'allenatore virtuale) ma perché interessa una ristretta cerchia di persone dal punto di vista amatoriale e, soprattutto, perché non se ne può più di docu-fiction dal contesto competitivo che sono soltanto un pretesto per raccontare storie.
Anche gli otto runner di The R.U.N. si prestano all'unica regola di poter raccontare qualcosa (non è un caso che ogni produzione vanta il cast ben costruito) anche se non diventeranno mai "famosi" come i partecipanti del Grande Fratello. Dietro i nickname Gazzella, Gladiatore, Spritz, JetLag, Wolfman, Vogue e Butterfly c'è il pilota Alitalia nato da genitori, la studente milanese, il musicista calabrese e il barista guarito da un tumore diventato papà durante la registrazione del programma.
E' vero che tutti hanno una storia da raccontare e per ognuna ci si potrebbe scrivere una sceneggiatura, un racconto o quanto meno un articolo. Continuo però a pensare che lo strumento utile a raccontare di sé non sia un reality o una docu-fiction. Questi servono solo ad alimentare il voyeurismo imperante e la voglia di protagonismo di chi è convinto di esistere solo perché si racconta in una tv sempre più inutile.
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