PREFAZIONE
Poeta e gentiluomo
I poeti son filosofi rimatori. E quando c’è di mezzo il vernacolo o il dialetto, rimano in sonetti. Come Luciano Tarabella, della prolifica scuola dei poeti popolari toscani. Livornesi, nel suo caso. Che alla tipica acutezza dissacratoria della toscanità uniscono il tipicissimo linguaggio dei Quattro Mori, così spesso intriso di quei termini gastro-ano-genitali che racchiudono un po’ tutta la visione che del mondo hanno i figli di Labrone: mangiare-cacare-trombare, a racchiudere tutto l’arco della parabola esistenziale. Col sesso a far da scena totale sul teatro della vita. E con tante parolacce, come le definiscono gli altri. Quelli che "sannounasega" loro com’è che l’imprecazione antidivina o il vaffanculo antiumano non sono a Livorno mera volgarità ma forma linguistica d’una mentalità ch’è filosofia di vita. Insofferente di perbenismo e d’autorità. Ché a mandà ‘nculo ‘r re il livornese ci mette quanto a mandà ‘n culo anche ‘r papa. Una lingua ch’è filosofia, insomma. O una filosofia parlata.
Senti per esempio il Tarabella, in questo “Testa e lische”:
Si sognava la topa da ragazzi a occhi aperti ma cor pipi ritto e c'era un solo modo d'esse’ sazzi sebbene che l'amore sia un diritto.
Ortre la mano, nun ce n'era spazzi perché la donna, lei, voleva ir citto; a occhi chiusi e a parità di cazzi sceglieva sempre quello cor profitto.
Ora che sono pieno di vaìni cor conto in banca che mi son sudato batto ancora musate. Come sai
la topa viene data ai ragazzini perché l'anziano nun è più caàto: budello cane, un c'indovino mai!
Oddìo, non è più quel Tarabella giovanilmente pimpante che cominciai a pubblicare sul Vernacoliere nei focosi anni ’80, quando l’uccello tirava a lui e lui tirava moccoli agli dei. Sì, qualche ricordo c’è di quei tempi, in questa raccolta di sonetti. Ma ci si respira più che altro la malinconia del tempo andato, degli amori sperati e non vissuti, dei sogni mai realizzati.
Piglia “Ir destino”, per capire: (in corsivo)
La sorte umana è drento un canterale con chissà quanti mai cassetti in fila però è nascosta da una grande pila di passioni diverse e messe male.
Ognuno, per istinto naturale, vorrebbe la migliore e la trafila, la mia, la tua o d'artri centomila, è la stessa per tutti, tale e quale.
Buttate all'aria tutte l'occasioni la ricerca ci lascia inappagati e ci si scopre vecchi con stupore.
Allora si fa ir conto: d’illusioni, magari vattro sogni irrealizzati, eppoi? Mi vien da ride’: eppoi si mòre!
Ma l’animo acceso, la caratterialità ironica e sfottente del livornese non cedono. E neppure nel ricordo malinconico manca la rabbia vitale.
Come in “Ficona”: (in corsivo)
Com'eri bella cinquant'anni fa, solo a guardatti mi mancava ir fiato e quanti... sogni mi ci son tirato perché un me la volevi propio da’!
Io chi ero? Un ragazzo innamorato che un ciaveva più voglia di ampà e che avevi ridotto in uno stato che neanco si pòle immaginà.
Eppure stamattina dar norcino, pagando un etto e mezzo di preciutto, m'hai sorriso iudendo ir borsellino.
Sicché ho pensato: ora ti decidi? Ora che sei cicciona, ma di brutto, mi mostri la dentiera e mi sorridi?
Con quer culo che 'un passa dall'androni con quer naso moccioso fatto a becco con quelle puppe mosce ciondoloni...
speravi di trovammi cèo secco?
E certo manca un vaffanculo, a chiusura del tutto: perché Tarabella è sì poeta, ma è anche un gentiluomo. Malgrado la livornesità.
Mario Cardinali
(Direttore de " IL VERNACOLIERE" di Livorno)
POST FAZIONE
Livorno ha alcuni cantori accaniti e fra questi c’è Luciano Tarabella, che da cinquanta anni scrive le sue poesie in italiano e in vernacolo. Quelle raccolte qui costituiscono una dichiarazione d’amore, innanzi tutto per la sua città, salsa e libera, di cui sa cogliere gli aspetti lirici ma anche il degrado e l’abbandono con un amore totale e senza riserve. “Noiartri ci s'ha il Porto, ir mercatino via Grande, la Sambuca, le Fortezze... “ Lo sguardo è attento, curioso, personale, irriverente come irriverenti sono tutti i livornesi. Persino i famosi 4 Mori, simbolo della città, diventano “quattro vucumprà senz’accendino.” Ma l’amore è anche per la vita in generale, per la famiglia, per il cane, per la moglie, ricordata nei momenti della passione giovanile, quando “s’andava al bubbocine”, ma amata tanto più adesso, nella dolce complicità degli anni che si fanno sentire. Gli argomenti spaziano dalla rievocazione di figure tipiche nostrane come il reietto Cutolo, alla citazione dantesca ironica, alla vita quotidiana, alla politica e al costume, ai fatti di cronaca cittadina, fino addirittura ad un tentativo di cosmogonia filosofica. Tarabella ha una parola per tutto, s’interessa di tutto, senza intellettualismi né orpelli ma anche senza superficialità e con uno sguardo morale. Racconta anche se stesso, la sua vita quotidiana che diventa la vita di ognuno di noi, uomo o donna. Lo stile è sboccato, semplice, arrabbiato con bonarietà, ironico e divertente anche fra le lacrime.
Patrizia Poli