Egitto, Tunisia, Libia. Il viaggio del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan in Africa settentrionale, la scorsa settimana, ha reso manifesta la volontà della Turchia di recitare un ruolo da protagonista nella costruzione – innescata dalle rivolte della “primavera araba” – del nuovo Medio oriente; un ruolo di riferimento politico e di catalizzatrice dello sviluppo economico, come ha testimoniato la presenza di sei membri del governo (tra i quali i ministri degli esteri, dell’economia, dell’energia, dei trasporti e della difesa) e di due aerei carichi di imprenditori di primo piano al seguito del premier: un ruolo contrapposto ma non pregiudizievolmente ostile a Israele. La prima tappa, quella del Cairo, è stata decisamente la più significativa: Erdoğan è stato accolto da una folla festante al suo arrivo in aeroporto, con poster, striscioni e cori; hai poi incontrato i massimi vertici istituzionali, politici e religiosi; ha pronunciato due storici discorsi nella sede della Lega araba e all’opera della capitale egiziana, ha concesso interviste alla tv; ha firmato il protocollo istitutivo dell’Alto consiglio di cooperazione strategica, lo strumento privilegiato – insieme all’accordo di libero scambio siglato già nel 2005 – per cementare un’alleanza destinata a riassestare gli equilibri di forza nella regione.
Due gli appelli lanciati dal premier turco. Il primo, rivolto direttamente ai ministri degli esteri riuniti della Lega araba che hanno apparentemente gradito: fare della battaglia per il riconoscimento dello stati di Palestina un sforzo congiunto arabo-turco, serrare i ranghi per costruire un futuro comune di libertà e giustizia; mentre Israele è stata chiamata ad agire con ragionevolezza e con responsabilità, ad accettare le condizioni turche – scuse e risarcimento per le vittime della Mavi Marmara, fine del blocco di Gaza – per un ritorno alla normalità nelle relazioni bilaterali. Il secondo, alle amministrazioni provvisorie create dalle rivolte contro i precedenti dittatori e ai regimi autoritari attualmente al potere, in primis alla Siria di Assad ma senza escludere nessuno: scegliere per il proprio futuro istituzionale il “modello turco” fondato sulla democrazia e la laicità, un modello – secolare ma non laicista – in cui tutte le religioni vengono ugualmente rispettate; è il modello creato in Turchia dall’Akp neutralizzando il ruolo abusivamente politico delle forze armate e della magistratura, riconoscendo alle minoranze pari dignità e piena legittimità: che verrà formalizzato nella nuova costituzione, la cui elaborazione inizierà alla ripresa dei lavori parlamentari il 1° ottobre. Una proposta che ha lasciato piacevolmente di stucco molti analisti occidentali, a cui delle ben orchestrate campagne di disinformazione – assecondate da corrispondenti compiacenti – avevano consegnato un Erdoğan islamista o autocrate. Hanno dovuto ricredersi.
Tra gli accordi siglati, due meritano particolare attenzione: quello sulle esplorazioni petrolifere congiunte nel Mediterraneo orientale, che lascia presagire un riallineamento – Turchia ed Egitto da una parte; Repubblica di Cipro, Grecia e Israele dall’altra, forse col sostegno russo – nel grande gioco energetico che sta per scatenarsi – sono previste per il 1° ottobre le prime trivellazioni al largo di Cipro – nel mare nostrum; quello per la realizzazione di una linea per il trasporto di elettricità in tutti i paesi della sponda sud, dalla Siria al Marocco e con l’eccezione di Israele: un progetto di integrazione regionale. Le altre due tappe, la Tunisia e la Libia, si sono rivelate dei semplici corollari: Erdoğan ha continuato a essere accolto da trionfatore (ancor più di Sarkozy e Cameron, che lo hanno anticipato di un giorno a Tripoli e Bengasi), ad incontrare tutte le componenti istituzionali e politiche, a offrire puntualizzazioni ed elaborazioni sui suoi due discorsi, a favorire la firma di accordi soprattutto commerciali, a proporre un nuovo Medio oriente. Un Medio oriente più libero e più prospero grazie ai consigli e agli investimenti della Turchia: che vuole esercitare leadership, ma non egemonia.