Stavo bevendo un caffè nel bar della stazione quando una macchina si è schiantata sulla vetrina che dava sul piazzale davanti e ha trascinato per due o tre metri tavolini, sedie e un mucchietto di persone. Dopo, disteso a terra, c'era anche un bambino, quattro o cinque anni, occhiali, berretto di lana rosso in testa, mezzo coperto dal corpo di sua madre. Uno spettacolo che stringeva il cuore. Mi sono alzato prima che arrivassero i soccorsi, e nonostante il tumulto, ho preso il treno per casa. Mi sono addormentato guardando sfilare paesi, pianure e nuvole in lontananza. Quando mi sono svegliato, la mia fermata era passata da un pezzo, e non c'erano treni per tornare. Forse da quelle parti la gente arrivava e non ripartiva più. Ed era tardi, e avevo fame, così sono uscito in cerca di qualcosa da mangiare. Davanti alla stazione ho evitato per un soffio di essere investito da un'automobile, che ha dovuto sterzare all'improvviso per non tirarmi sotto. Alla fine ho preso un pullman. Dal finestrino arrivavano paesi più piccoli, pianure in miniatura, e le stesse nuvole. A metà strada, alla periferia di una città, è esplosa una gomma, con un botto attutito, come di cuscini e battipanni. Siamo scesi tutti: una vecchia piena di sacchetti, una famiglia di indiani, tre studenti, una donna con il fazzoletto della chemio in testa, io. Ho chiesto all'autista per quanto ne avremmo avuto. Mi ha guardato e ha scosso la testa rassegnato. Mi sono incamminato fino a quando ho trovato un rent a car. Ho noleggiato una macchina e ho viaggiato per ore. Ero quasi arrivato in stazione quando il sole si è riflesso su una finestra di un palazzo e per un attimo mi ha accecato: così, poi, per evitare un uomo che stava attraversando la strada, ho dovuto sterzare di colpo, e l'ultima cosa che ho visto prima di sfondare la vetrina del bar della stazione è stato il viso di un bambino con gli occhiali e un berretto rosso in testa che mi guardava stupito.