by lacapa
Qualche giorno fa dovevo lavorare e non ero a casa mia. Avevo davanti un Mac, e non era mio neanche quello. Dovevo aprire Gmail e sapevo che mi sarei trovata davanti le email di qualcun altro, sapevo che avrei avuto a mia disposizione la corrispondenza privata di una persona a cui tengo e che mi piacerebbe tenesse a me. Era un déjà vu. Mi era già capitato. Quell’altra volta ho fatto una cosa di cui non vado fiera: ho letto quelle email. Anzi, ho cercato tra quelle email. Ho cercato la parola «Fidanzata» sperando di leggere qualcosa tipo: «Sono molto innamorato della mia fidanzata». Invece ho trovato messaggi di altro tenore, sintetizzabili in «Ma tu non hai una fidanzata?» «Non è un problema». Ho chiuso il computer, ho pianto per ore e poi ho deciso di stare zitta. Mi vergognavo troppo per il mio comportamento. Lo trovavo (e lo trovo ancora) più grave di un tradimento. E la vergogna era più forte della rabbia per quel flirt che non avevo idea – all’epoca – se fosse mai stato consumato.
Quindi avevo questo Macbook Air con tutti gli account impostati, lì a mia disposizione. Facebook, Skype, la posta. Tutto. Ed ero terrorizzata. Se in quella stanza ci fosse stato qualcuno mi avrebbe vista fare i logout col viso girato dall’altra parte, intenta a guardare lo stretto indispensabile per uscire. Avrei voluto poter applicare ai miei occhiali quel filtro di Instagram che sfoca tutto tranne quello che decidi tu. Avrei voluto che le altre lettere si sciogliessero e che su quello schermo l’unica cosa leggibile fosse «Esci e accedi con un altro account». Quando ho chiuso tutto, quando tutti i Facebook e i Gmail e gli Skype erano stati disconnessi ho tirato un sospiro di sollievo. «Menomale – ho pensato – adesso non posso più rischiare di leggere niente di brutto».
Il fatto è che il 2013 l’ho passato a mandare giù bocconi amari. Di mese in mese, l’unica costante di quest’anno è stata la sua pesantezza. Mi sono svegliata la mattina sperando che le giornate fossero meno brutte. Non osavo neanche sperare che fossero buone. È stato difficile. L’università, l’amore, la vita, l’insonnia, il lavoro, le speranze, le ambizioni, Cane, Vanda la Panda. Tutto quello che poteva andare male o avere un risvolto negativo andava male e aveva quel risvolto negativo là. Anche se c’era un solo risvolto negativo a fronte di milioni di risvolti positivi non importava. Quell’unica possibilità di merda aveva la meglio su tutta l’altra gioia probabile. Nel 2013 ho versato una quantità di lacrime che nemmeno credevo si potesse versare, mi sono sentita sconfitta, persa, amareggiata e abbandonata.
A un certo punto ho cominciato a uscirne, mi sono accorta che stava andando meglio. Che tutte quelle mazzate sui denti si erano trasformate in una specie di senso di onnipotenza. Qualcosa tipo: «Vabbè, tanto ormai che hai da perdere?». È stato a quel punto che ho ricominciato a guadagnare terreno. Solo che dopo ogni centimetro in avanti vengo trascinata alcuni metri indietro.
Ed è peggio di prima. Perché prima, senza centimetri di felicità rosicchiati con fatica, non avevo niente da perdere. Adesso sì. È incredibile quanto questa cosa ti paralizzi e ti faccia sperare che tutto finisca in fretta. Veloce veloce, prima di aver voglia di non fare logout da un indirizzo email perché non credi più ai vari «A che pensi?» «A niente» «Tutto okay?» «Sì». Non immaginavo che sarei mai diventata come sono diventata, cioè una di quelle che hanno paura pure della propria ombra. Il fatto è che 2013 mi ha fatto scoprire che faccio crack e mi spezzo in un attimo. E che ci sono volte che preferirei lamentarmi per cose che conosco che provarne di nuove e rischiare che mi piacciano davvero.
Un po’ come se mi augurassi che quell’«Esci e accedi con un altro account» fosse un bottoncino da cliccare nella vita vera. Da usare per semplificare le cose complicate. Ma magari, visto che il 2013 mi ha insegnato che ho le ossa di vetro, nel 2014 imparerò a non scappare.
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