Quando tutti questi elementi mancano, la vita, anche artistico-letteraria, si può fare davvero dura. Di una tal situazione ne hanno sofferto diversi grandi autori nati nel Bel Paese, dallo straordinario e oramai quasi dimenticato Emilio Salgari, allo stesso Carlo Collodi creatore dell’intramontabile maschera di Pinocchio (le cui avventure, in Italia, fecero il grande salto dall’universo “letteratura per ragazzi” a quello di “letteratura tout-court” solamente grazie al giudizio favorevole di Benedetto Croce). Ma, specialmente, ne ha sofferto il geniale padre di don Camillo e Peppone, al secolo Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1º maggio 1908 – Cervia, 22 luglio 1968), scrittore, giornalista, caricaturista e umorista nostrano. Di buono c’è che più l’intellighentsia-intransigente bastona questa categoria di artisti più questi si fanno amare (specialmente in quest’epoca digitale e di massima comunione di tutto ciò che è notiziabile), dal pubblico di lettori sia in patria che all’estero e a loro modo creano “opinione”. Non a caso Giovannino Guareschi è “uno degli scrittori italiani più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie, nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto”. A mio avviso però, Guareschi, lo scrittore Guareschi, il giornalista Guareschi, l’uomo Guareschi è molto di più di un autore universalmente tradotto.
Lo scrittore Guareschi, per esempio, è un creativo che (nda userò sempre il presente, quando possibile, perché gli spiriti grandi non muoiono mai e non hanno tombe), grazie ad una stupefacente vis comica, ad una singolare dote arguta di tipo rabelaisiano, grazie ad un commitment-politico-civile-intellettuale sentito e vero, è riuscito come nessuno a raccontare l’Italia della sua generazione, i suoi vizi e le sue virtù, nonché ad anticipare, a far vedere come prevedibile, lo sfascio sistemico corrente. Il giornalista Guareschi invece non è stato mai “venerato maestro”, ma si è proposto per davvero come uno dei pochi professionisti italici con la mitica “schiena diritta”, nonché il primo giornalista della Repubblica Italiana che – essendo incorso nelle ire del potentato di turno – ha scontato interamente una pena detentiva in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa. L’uomo Guareschi invece non ha bisogno di troppe parole. Ritengo, infatti, che – come accade per ogni madre che fatica per mettere al mondo i suoi pargoli – un qualcosa di lui lo si possa apprezzare ogni giorno nello stile sanguigno di Peppone, nella grande Fede di don Camillo, nello spirito irriverente e goliardico di infiniti suoi characters minori, nella formidabile verve ironica e pungente apprezzabile soprattutto nelle numerose rubriche di “Candido” (1945) il giornale satirico da lui creato, insieme a Mosca e a Mondaini, ed edito da Angelo Rizzoli; basti ricordare, per tutte, la favolosa serie «Obbedienza cieca, pronta e assoluta: contrordine compagni!».
Insomma, un uomo, Giovannino da Fontanelle di Roccabianca, che si fa ammirare dai posteri, privilegio, questo, concesso ai grandi, agli spiriti grandi soltanto. L’intervista ad Alberto Guareschi, uno dei suoi figli, nasce quindi da questa mia sempinterna ammirazione, fascinazione con l’artista e il suo talento. Ma, soprattutto, è da intendersi quale piccolo omaggio ad un uomo italiano che ha saputo vivere come tutti gli uomini e le donne dovrebbero vivere: senza paura!
D. Uno degli incontri “importanti” della vita di Giovannino Guareschi fu quello con Cesare Zavattini, maestro del neorealismo. Fu infatti Zavattini che lo introdusse al “giornalismo” professionistico. Che rapporto legava i due? Cosa amavano l’uno dell’altro? Può raccontarci un qualche episodio che descriva al meglio quel legame umano e lavorativo insieme?
R. Ritengo Zavattini uomo di grande generosità e vero talent scout di mio padre. Già nel 1925, stilando, in qualità di istitutore del Collegio Maria Luigia di Parma, le note sulla pagella bimestrale di quinta Ginnasio del convittore Giovannino Guareschi, aveva scritto «Troppo spiritoso. La sua “verve” è spesso inopportuna. Le sue mancanze sono conseguenza di irrefrenabili doti umoristiche. Veramente intelligente, ottiene per lo studio, coi minimi mezzi, i massimi risultati.». Ben diversa la nota del bimestre successivo: «È un caposquadra pericoloso. Per fare dello spirito casca facilmente nell’indisciplina…. Crede che la sua ottima posizione di scolaro sia il salvacondotto di non rare licenze.» La causa di questo cambiamento è dovuta al fatto che, nel frattempo, il padre (ndr di Giovannino) ha subito un fallimento che ha ridotto la famiglia in miseria. L’àncora di salvezza è stata il magro stipendio di maestra della madre e l’alloggio fornito dalla scuola. Uscito dal collegio per mancanza di mezzi per la retta, «Cesare Zavattini» così racconta mio padre, «mi ha preso sottobraccio, mi ha chiesto perché non provavo a scrivere per la “Gazzetta di Parma”…». In quell’occasione gli ha spiegato che, «nel giornalismo, quel che contano sono le trovate …” e che i giornali di provincia erano completamente sbagliati in quanto, seguendo lo schema tradizionale dei grandi quotidiani, mettevano nel massimo risalto, in prima pagina, le cose d’interesse nazionale, relegando alla terza o alla quinta pagina la cronaca cittadina.» Nel 1936 Andrea Rizzoli, figlio dell’editore milanese Angelo, su segnalazione di Cesare Zavattini che da qualche anno si era trasferito con successo a Milano, gli propose il posto di redattore nella rivista umoristica «Bertoldo».
In seguito le loro strade si separarono sia nelle opinioni politiche: Zavattini, simpatizzante della sinistra ebbe subito un grande successo nel mondo del cinema a Roma; mio padre a Milano, fedele alla destra monarchica, nel mondo del giornalismo. Ma, pur operando su opposte sponde, ogni tanto si riunivano a Milano in casa nostra assieme ad altri amici parmigiani “esuli” senza parlare di politica ma di cose che li trovavano tutti d’accordo, dai ricordi della loro giovinezza con le tasche perennemente vuote, a quelli degli amici comuni e alle baraccate a base di lambrusco e culatello…
D. Giovannino Guareschi, nell’ordine: insultò Mussolini, diede qualche grattacapo nell’Italia post-armistizio rifiutandosi di disconoscere l’autorità del re, disegnò un Togliatti trinariciuto, fu accusato di vilipendio al Capo dello Stato Luigi Einaudi, ricevette una denuncia con successiva condanna per diffamazione da parte dell’ex Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Però era monarchico e profondamente religioso. L’impressione è che avesse meno fiducia nei governi degli uomini di quanta ne avesse in un ordine “divino” delle cose. È corretta questa visione? E, nel caso, cosa l’aveva determinata?
R. Non aveva nessuna fiducia né nella Costituzione della Repubblica né nell’Istituto repubblicano, nato in modo poco chiaro. A fine dicembre del 1947, commentando sul «Candido», settimanale fondato assieme a Mosca e Mondaini che dirigeva, la nascita della Carta Costituzionale, scriveva: «Sul grigio orizzonte del primo giorno del 1948 si leva il sole scialbo della costituzione che “tutela il paesaggio”, che dichiara “libera l’arte” e si disinteressa dei problemi fondamentali.» Amava l’istituzione monarchica costituzionale perché il Re non partecipa alla determinazione dell’indirizzo politico del Paese ma rappresenta solo la conservazione dei valori risorgimentali mentre il Governo è parlamentare.
D. «No, niente appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. (…) Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente”. Furono queste le parole di Giovannino Guareschi dopo il processo scaturito dalla denuncia di Alcide De Gasperi. In che modo lo cambiò questa particolare esperienza? E quale ruolo attribuiva Guareschi al giornalismo, al mestiere del giornalista, nel difficile compito di cambiare il “costume” di un paese come l’Italia?
R. L’esperienza del carcere fu terribile per mio padre perché aggravò la sua già precaria salute e gli ridusse moltissimo la carica di entusiasmo nel lavoro, riempiendolo di amarezza. Solo dopo una sosta di diversi mesi ad Assisi, dopo aver scontato la pena, ritrovò, grazie all’aiuto di San Francesco di cui era devoto, il desiderio di continuare nel suo impegno civile, riprendendo a scrivere per i suoi lettori.
Aveva ben chiaro il ruolo che doveva svolgere come giornalista: «La mia scuola di giornalismo politico non l’ho fatta in una sede di partito… Io l’ho fatta in un Lager: e migliaia di degni galantuomini che hanno vissuto quei dolorosi giorni assieme a me possono testimoniare come il tenente Guareschi signor Giovannino abbia onorevolissimamente svolto la sua attività di giornalista libero, onesto e sereno dal primo all’ultimo giorno nel lager. Ho imparato, in quella dura scuola, come sia bello, come sia virile, come sia civile dire pubblicamente ciò che si pensa, specialmente quando ciò comporti un grave rischio».
«Ho camminato senza esitazioni, e senza mai sconfinare, sulla strada del giornalismo: quella strada che non può condurre un giornalista né all’ufficio stampa di un partito né in Parlamento, perché il giornalismo lo si serve. Non ci si serve del giornalismo. E chi se ne serve non è giornalista anche se scrive dei bellissimi articoli».
E aggiungeva: «Non si può limitare l’attività giornalistica all’obiettività. E non è giustificata l’esistenza di un giornale che si limiti a dire onestamente: “Questo è bene, questo è male”. Occorre avere un’idea precisa da affermare…».
D. Quando il Togliati “trinariciuto” lo insultò chiamandolo “tre volte idiota moltiplicato tre”, suo padre scrisse su “Candido”: “Ambito riconoscimento”. Questo è uno dei mitici momenti che raccontano al meglio il Guareschi anticomunista. Paradossalmente, guardando alla moderna tradizione satirica di sinistra, dai grandi vignettisti ai giornali come “Cuore” di Michele Serra, sembrerebbe che sia stata proprio questa tradizione a valorizzare e ad attingere al meglio allo straordinario-satirico-guareschiano. Tuttavia, l’intellighentsia gauchista non gli ha mai perdonato la non-appartenenza. Quale è stato – soprattutto dal momento della morte in poi – lo scotto che l’arte-di-Guareschi, il genio-irriverente-di-Guareschi ha dovuto pagare ad un tal bando intellettuale?
R. La cultura ufficiale gli ha fatto pagare uno scotto molto alto per la sua non appartenenza, utilizzando l’arma efficacissima del silenzio. Silenzio totale che è durato dalla sua morte fino all’inizio degli Anni ottanta, quando è stato sconfitto dalla fedeltà dei lettori di mio padre che hanno sollecitato a tal punto l’editore Rizzoli, da convincerlo non solo a ristampare i suoi libri ma anche a pubblicare diverse raccolte postume di racconti apparsi su «Candido» e mai raccolti in volume.
Questo bando intellettuale, che ancora, in parte, esiste, è dovuto esclusivamente a malafede o al filtro ideologico che impedisce agli accoliti della intellighentsia di sinistra di valutare con serenità le sue opere. E la “colpa” è di mio padre che, per tutta la vita, purtroppo molto breve, ha lottato per mantenersi libero. Ci è riuscito solo passando dai reticolati della dittatura nazista, dove ha pagato con la sua fame e le sue sofferenze la sua scelta di non voler collaborare con i tedeschi e di non volere aderire alla Repubblica Sociale Italiana, a una democratica cella italiana, dove ha pagato con il successivo forzato isolamento e allontanamento dalla scena. Non avrebbe mai potuto adattarsi, tacere, accettare dei compromessi per vivere più a lungo e con meno preoccupazioni: il suo era un vero, grande amore per la Libertà, di quelli che non prevedono deroghe o tradimenti, e nostro padre ha messo a frutto il talento che gli aveva consegnato il Padreterno, per trasmetterlo ai suoi lettori. Siamo convinti che ci sia riuscito anche se l’amore per la Libertà di spirito si porta dietro inevitabilmente una buona dose di sofferenza . Ma porta anche una grande tranquillità di coscienza che nessuna cella, nemmeno la più piccola, può turbare. Questa sua scelta di vita è stata premiata dai suoi lettori che non lo hanno mai abbandonato e han fatto delle sue opere “libri di consegna” da passare ai figli e ai nipoti…
D. “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no” era uno dei famosi slogan con i quali, durante le elezioni politiche del ’48, Guareschi faceva campagna elettorale contro il Fronte Democratico Popolare (alleanza PCI-PSI). A guardare dentro le dinamiche dell’Italia post rivoluzione digitale ma soffocata dagli scandali e dalla corruzione politica, sembrerebbe che, oggidì, oltre a Stalin anche Dio si sia momentaneamente distratto; o almeno che così la pensino quei rappresentanti del popolo che hanno profittato della fiducia loro concessa. A suo avviso, cosa avrebbe detto Giovannino Guareschi davanti allo sfascio sistemico corrente? E dove avrebbe ricercato le vere radici di questo male? Magari proprio dentro quel “vecchio” sistema che lui stesso aveva combattuto e che così sovente lo aveva condannato? Se questa interpretazione fosse corretta, ritiene che Guareschi “temesse” un fallimento della sua generazione, a destra come a sinistra?
R. “Giovannino senza paura” è uscito dalla sua battaglia della vita vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, è riuscito a non odiare nessuno. Non solo: ha conservato intatta una fiducia sconfinata nella Divina Provvidenza e la speranza in un mondo migliore non lo ha mai abbandonato. Pochi anni prima di morire, scriveva: «È qui su questo pianeta, che il Figlio di Dio ha voluto nascere, soffrire e morire come Uomo. Qui sono il nostro passato e il nostro avvenire… Una fiamma scalda ancora il nostro vecchio cuore di terrestri. E in noi è ancora più forte la speranza che la paura. Grazie a dio».
Nota redazionale: grazie ad Alberto Guareschi per la sua cortesia di sempre. La versione in lingua inglese di questa intervista verrà pubblicata a giorni.
Featured images Giovannino Guareschi, fonte Wikipedia.