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E siccome sono bacchettone, io li faccio. Prima consegna: fotografare il movimento.
Ma io ci penso troppo sopra: anziché prendere la mia fotocamera, partire e provarci, ho cominciato a rifletterci e ho stabilito quanto sia importante per me la sintesi di una situazione, ma una sintesi che imbrigli la realtà entro una codifica stretta. In poche parole, ho sempre privilegiato la stasi e il silenzio e, se questo di per sé non è né bene, né male, è senz'altro una cosa positiva rendersene conto.
Secondo inciampo. Come fissi il movimento? Lo congeli (tempi rapidissimi dell'otturatore) e allora fai diventare l'acqua una scultura traslucida oppure privilegi l'effetto mosso (magari mettendo a fuoco oltre una strada e lasciando che il soggetto che passa tra te e l'altro marciapiedi appaia proprio mosso, oltre che sfocato)? Devi dare il senso o la traiettoria? Devi attribuire uno scopo a quel movimento? E come fai, in definitiva, a scongiurare l'ipotesi che quella rimanga in ogni caso una posa?
Terzo inciampo. Sono abituato a fotografare non quello che vedo, ma quello che ho visto. Fotografare significa per me recuperare un'immagine che è un'intuizione, cercare gli strumenti chimici ed elettronici per fissarla. Ma se vuoi il movimento, devi per forza elaborare in un continuum che ti fa sfuggire quell'attimo fuori dal tempo, gli spunti si accavallano e lo scatto - che strana, questa parola che esprime l'immobilità dell'attimo in cortocircuito con un'accelerazione improvvisa! - non dipende più solo da quello che hai pianificato, ma anche da una discreta dose di fortuna.
Quarto inciampo, forse quello essenziale. Alcune cose si muovono davvero, sono il primo a dirlo: non c'è, insomma, una postura che ricordi il movimento. Però in una fotografia corretta e nitida questo non è facile da mostrare e spesso bisogna ricorrere a una posizione di disequilibrio per alludere a ciò che è successo prima e a ciò che succederà subito dopo (pare questo fosse uno dei doni di Cartier-Bresson, che sceglieva l'istante in cui il piede si sollevava da terra per indicare il cammino). Il movimento, insomma, è ciò che emergerebbe da una proiezione di quell'immagine data in una sequenza.
Ma chi vede una fotografia vede ciò che la macchina ha fissato. Il pubblico di una fotografia non sente - e al più può solo generosamente immaginare - il vento, il caldo, la folla attraverso cui si è scattata quella foto, se l'immagine lo consente (e, per esempio, la barca qui a fianco, che ancheggiava e beccheggiava, sembra invece immobile: anche senza considerare il contrasto e altri aspetti, la fotografia è fallita!). Non si può pretendere che chi guarda una foto cerchi di capire, raziomalizzare o vada oltre ciò che si vede, deve essere l'immagine a suggerirlo a costringere lo spettatore a una dimensione successiva. Magari con una sorpresa, un movimento inatteso salvifico (l'invito a cena di un convitato di pietra, per esempio). Facile a dirsi.
Il punto, se si vuole fotografare davvero, non è soltanto centrare il tema, persuadere a guardare oltre. La sfida nel non "sbagliare" consiste nel commettere il minor numero possibile di errori proprio in ciò che si voleva dire. Io ascolto, eccome, consigli e suggerimenti: però in questa fase il problema è l'autoconsapevolezza delle proprie scelte o, detto senza boria, del proprio linguaggio. È quello che, tentativo dopo tentativo, si deve maturare. E se anche una foto è sbagliata, è molto più importante stabilire in base a quale messaggio che non in base a quale regola. Le regole sono per tutti e sono di aiuto, ma le foto sono di chi le scatta e di chi le vede.
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