Pubblichiamo in esclusiva un capitolo del nuovo libro di Irene Chias, Esercizi di sevizia e seduzione (Mondadori, 2013). La scrittrice siciliana – che era già stata ospite tra le nostre cronache – ha scritto un libro particolarissimo contro la violenza sulle donne. La protagonista, Ignazia, ha deciso di prendersi la sua rivincita sugli uomini inutili con una particolarissima vendetta ‘letteraria’. Ecco il suo ‘manifesto programmatico’.
Da qualche tempo sto maturando una consapevolezza riguardo alla mia missione esistenziale: riequilibrare la percezione di normalità dell’abuso sessuale fra i due generi. Con questo non intendo dire che stuprerò e sevizierò maschi a casaccio, o che a ogni violenza sessuale ai danni di una donna riportata sul giornale farò corrispondere una violenza sessuale su un uomo. Stuprare non è da me, e poi devo ammettere che da sola sarebbe troppo faticoso. Non posso neanche attribuirmi un profilo da giustiziera, perché finora non ho avuto a che fare con stupratori o assassini comprovati, ma unicamente con coglioni maschilisti o compiaciuti sciovinisti che disprezzano ogni forma di alterità, che parlano con compiacimento di mutilazioni genitali femminili salvo poi condannarle come barbarie ed ergersi a salvatori della dignità delle donne quando si tratta di dichiarare gli altri “inferiori”. Per questo non metterò in pratica violenze a sfondo specificamente sessuale ai danni di nessuno, ma mi limiterò a spaventare tali individui che forse semplicemente non hanno avuto la possibilità di riflettere, di abbandonare neanche temporaneamente l’idea che hanno di se stessi e di provare quindi empatia per gli altri. Mi limiterò a spaventarli immobilizzandoli e leggendo loro i miei esercizi letterari di sevizia, quelli che tengo nel cassetto, il cassetto dove gli altri tengono un romanzo o un generico sogno. I miei esercizi su Marinetti, Ellis, Bolaño. Quando riconoscerò in loro l’acme del terrore, o quando il mio repertorio scenico e letterario si esaurirà, se non saranno già svenuti, darò loro una botta in testa, gli inietterò una bomba di estrogeni a rilascio lento (l’equivalente di tre mesi di pillola contraccettiva di quelle potenti, quelle sperimentali degli anni Cinquanta) e, se mi nasceranno scrupoli di natura etica all’idea che cresceranno loro le mammelle (nel caso non le avessero già belle protuberanti, data la diffusa lipomastia causata forse dall’eccessivo consumo di carne industriale), li placherò senza difficoltà richiamando alla memoria le circostanze che hanno portato le cosiddette vittime al mio cospetto. Insieme agli estrogeni, e questo è un regalo, inietterò loro anche dell’ossitocina, l’ormone dell’amore, il peptide prodotto dai nuclei ipotalamici e secreto dalla neuroipofisi, la sostanza chimica dell’orgasmo e della generosità. È così che si dovrebbe condurre la guerra per la pace, non con i missili e le granate. Alla fine li abbandonerò, sostanzialmente intatti, sul ciglio di qualche carreggiata di campagna fuori Milano. Non li uccido, non li mutilo. Se possibile non farò loro nemmeno un graffio. Voglio terrorizzarli soltanto, li farò sentire deboli e vulnerabili. Impartirò loro una lezione di compassione e li rinnoverò, li ricreerò biochimicamente. Non è che abbia traumi da superare o stupri da vendicare. Non personalmente, almeno. Ma ogni volta che rientro a casa la notte e ho paura, che rifletto sull’opportunità di andare a correre sola a parco Sempione e mi dico “meglio di no perché è buio”, che decido di non mettere i tacchi o le scarpe blu, che adoro ma mi vengono un po’ strette e non mi permetterebbero di correre in caso di pericolo, se so che dovrò percorrere un tratto di strada isolato, mi sento violata. Ognuna di noi ha di che essere esasperata quando – in un articolo relativo all’assassinio di una donna da parte di un fidanzato, o marito, o convivente, o ex di qualunque tipo, o anche solo spasimante – venti righe su trenta parlano di lei, delle sue nuove abitudini che rendevano lui geloso, dei nuovi amici, di un possibile amante, o semplicemente della sua avvenenza. E le dieci righe restanti raccontano di lui che si è lasciato prendere da un umano scatto di nervi, da una crisi di insicurezza. Un raptus, un momento di follia dettato dallo sfinimento. Ogni donna ha di che sviluppare avvilimento, alienazione, frustrazione, rabbia quando, sull’ennesimo trafiletto che parla di una vittima di violenza domestica, metà dello spazio è occupato dalla foto d’archivio, quasi glamour, di una ragazza in sottoveste, accovacciata in un angolo e in posizione di difesa, uno scatto che significativamente è la soggettiva dell’uomo assassino. Nei casi più drammatici compare la foto di una volante, di un poliziotto o di un carabiniere: una specie di marketing istituzionale che ci dice che in fin dei conti tutto è sotto controllo. Ma l’assassino non è mai l’oggetto dello sguardo, forse perché sarebbe meno carino della vittima e avrebbe la faccia normale del mio bancario, del mio fruttivendolo, del mio commercialista, di quel coglione di mio fratello. E parlo di donne esasperate e forse sbaglio, perché in teoria non avresti bisogno di essere femmina per sentirti offeso e disgustato. Ma hai certamente bisogno di una sensibilità speciale se la pelle non è la tua, se la cultura ti rassicura nel ruolo tutto sommato meno pericoloso del potenziale carnefice, ruolo in apparenza meno umiliante di quello della vittima predestinata di una violenza sessuale. Insomma, da donne, non c’è bisogno di essere state aggredite per essere logorate. Basta la possibilità di esserlo, basta sentire la propria libertà limitata. Non ho traumi personali da superare, fino ad ora. Ma ognuna di noi ha di che incazzarsi nel sentirsi in qualche modo una vittima designata nella generale indifferenza e in dovere di avere paura. Dover convivere fin da piccole con una minaccia, anche solo implicita, non è forse già subire una violenza? Non ho stupri personali da vendicare. O forse, alla fine, sì.