Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. E’ con un amico che gli dice: “Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito”. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.
Si aprono così, con l’annotazione di un episodio piuttosto comune, gli “Esercizi di Stile” di Raymond Queneau, pubblicati nel 1947. Come egli stesso spiegherà nella premessa di una delle prime edizioni della raccolta: “L’autore pensa così di svolgere lo stesso tema – un incidente peraltro reale, e banale – in un centinaio di maniere diverse. E’ indubbio che questi cento capitoli, identici per materia, letti di seguito non potranno mancare di provocare un certo effetto nel lettore”.
Proprio su questo effetto, scaturito dalla narrazione della banalità, vogliamo soffermare la nostra analisi.
Partiamo innanzitutto dal presupposto, che di “banale” c’è ben poco.
Già agli inizi del ’900 il surrealismo ha sviscerato tutte le contraddizione del concetto banalità. Lo ribadisce Stefano Bartezzaghi nel suo commento all’edizione italiana degli Esercizi: “Nel surrealismo la superficie opaca del reale può essere squarciata da un incontro fortuito (…) nulla è privo di significato (…) il banale diventa ciò di cui non si è colto il significato profondo”.
Solo che secondo Queneau questa verità oltre il reale può essere narrata anche e soprattutto attraverso le regole classiche della retorica. Gli Esercizi di Stile, diventano in pratica un manifesto anti-surrealista: “Un’altra falsissima idea che ha pure corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo d’altre regole che ignora.”
Il risultato sarà una collezione di 99 esercizi, che iniziano con “Notazioni”, passando per “Metaforicamente”:
Nel cuore del giorno, gettato in un mucchio di sardine passeggere d’un coleottero dalla grossa corazza biancastra, un pollastro dal gran collo spiumato, di colpo arringò la più placida di quelle, e il suo linguaggio si librò nell’aria, umido di protesta. Poi, attirato da un vuoto, il volatile vi si precipitò. In un triste deserto urbano lo rividi il giorno stesso, che si faceva smoccicar l’arroganza da un qualunque bottone.
Fino al narratore impacciato di “Dunque, cioè”:
Dunque, cioè, l’autobus è arrivato. Cioè ci sono montato; dunque, cioè, ho visto un tipo che mi ha colpito. Cioè, ho visto, dunque, quel collo lungo e la treccia intorno, dunque, al suo cappello. Cioè, dunque, lui si è messo a baccagliare col vicino che cioè gli marciava sui ditoni. Cioè, dunque, lui è andato a sedersi.
Dunque, più tardi, cioè alla Gare Saint-Lazare, l’ho rivisto, dunque. Cioè, era con un tale che, dunque, gli diceva, cioè quel tale: “dunque, dovresti far mettere un altro bottone, dunque, al soprabito. Cioè”.
L’effetto complessivo non è quello di assistere allo sfoggio delle capacità letterarie dell’autore, piuttosto di ascoltare una pluralità di voci che danno vita ogni volta ad una nuova storia, secondo stili e punti di vista differenti. Un coro da cui è proprio la voce di Queneau ad essere estromessa: non è mai lui a raccontare l’episodio in prima persona.
La banalità del tematica gli consentirà di mantenere tale distacco e allo stesso tempo di trascinare i lettori nel suo gioco.
Scriverà Umberto Eco nell’introduzione: “per le figure molto tecniche il lettore si accorge subito che c’è poco da capire e si deve solo ammirare il gioco di bravura. Per ammirarlo bisogna capire la regola, ma Queneau confida che il lettore se la trovi da solo, e probabilmente mette in conto questo aspetto enigmistico del gioco.”
La stessa numerazione degli Esercizi – 99 - né troppi né troppo pochi, secondo alcuni commentatori rappresenta un invito ai lettori, che una volta comprese le regole, potranno riempire lo spazio che manca per raggiungere la totalità numerica con ogni esercizio possibile.
E’ stato, quindi, Queneau a immaginare per primo il ribaltamento dei ruoli di autore e lettore, che trova oggi piena applicazione in quello che conosciamo come Web 2.0: lo spazio vuoto – ma in continuo divenire – su cui ognuno può pubblicare i propri contenuti (che siano commenti, figure, o riscritture) secondo il proprio stile.
Con gli Esercizi di Stile viene introdotto l’assunto secondo cui è scrivendo che si diventa scrittoranti, ossia “l’invito alla lettura lascia il posto all’invito alla scrittura, e il lettore viene cooptato all’attività letteraria, intesa quasi come via ascetica per diventare un uomo libero”.