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"Esercizi superficiali. Nuotando in superficie" di Raffaele La Capria

Creato il 23 aprile 2012 da Sulromanzo

L'elogio della superficie, di ciò che è immediatamente percepibile, ciò che si pone come evidenza, è stato motivo caro a non pochi scrittori. Da von Hofmannstal che sosteneva la profondità dover essere nascosta nella superficie, al nostro Italo Calvino che fa dire al signor Palomar che solo dopo aver esplorato la superficie è possibile spingersi a cercare quel che v'è sotto, epperò per concludere che la «superficie delle cose è inesauribile». E come dimenticare il celebre detto nietzschiano «siamo profondi, ridiventiamo chiari», tanto apprezzato dal colloquiale poeta Umberto Saba, che a un ritornare a galla, alla grana delle cose rimanda.

Per sfuggire alla falsa profondità, tenendo dietro in verità al sapore d'una mai abbandonata disposizione, Raffaele La Capria propone ora questi suoi Esercizi superficiali (Mondadori, 2012) dove la necessità di attenersi appunto alla superficie delle cose viene indissolubilmente a legarsi con la non meno necessaria scelta d'una scrittura equilibrata e leggera, da stile libero (come quello del nuoto), e che corra, dunque, in superficie. Inseguendo così il misterioso compenetrarsi di scrittura e pensiero, letteratura e vita. Stile libero: ulteriore immagine acquatica utile a ribadire quell'idea poetica di conquistata, lavorata e apparente semplicità conversevole dello stile dell'anatra (come lo battezzò lo stesso La Capria, con fortunata definizione, nel libro omonimo del 2001) che fa tutt'uno con il concetto (anch'esso profondamente lacapriano) di senso comune (alla cui definizione pure s'era applicato Enzo Siciliano, nel suo Diario, su Nuovi Argomenti). Di quel libro, questi Esercizi superficiali sembrano rappresentare un repechage in tono minore, per l'insistere dello scrittore napoletano sulla medesima costellazione di concetti sui quali si fonda la sua filosofia pratica di riferimento. Conversa di patria e bellezza, mala informazione e politica, memoria e impegno, della matriosca dell'infelicità privata e collettiva, oppone all'insensatezza l'evidenza. Sempre muovendo, tessendo il discorso, a partire dal dato autobiografico per leggerne un indizio generale, un tratto sociologico, un oroscopo culturale collettivo. Così, anche quando parla di letteratura in genere o dei libri di altri scrittori, ad emergere è la vicenda intellettuale del lettore-scrittore, il quid di cognizione che ogni incrocio ha saputo regalargli, rivelargli di sé e dell'altro. Come quando si erge a difesa del racconto, della forma breve che bada all'essenziale di ciò che è necessario raccontare, congeniale ad una contemporaneità deflagrata e frammentaria (Il racconto), o quando liquida, con una critica tutta di pancia, gli eccessi dello stile iper-immaginifico ed espressionista del Malaparte di La pelle e Kaput (Malaparte), la cui «orrorificazione della realtà» appare inverosimile, perché inautentica, artefatta, esibita (come dire: il trucco c'è e si vede). Forse, a suonare stanco e come "doveroso", forzatamente posto sul crinale d'una insostenibile (per il lettore) retorica che riesce talvolta disturbante, è il ritorno all'esaltazione ingenua delle risorse del genio italico, l'appigliarsi all'antico motivo del canto della Bellezza patria come orto di sopravvivenza (Italia, Italia 2, La Patria), che non sembra essere una più virtuosa alternativa a certo facile moralismo intellettuale che solleva la protesta dello scrittore. Non meno improntato a un retorico sentimentalismo e a un'ingessata necessità di dire sul presente, appare lo scatto d'indignazione civile per l'offesa sua città (Napoli ferita, Napoli ferita 2) o quando sente il bisogno di esprimersi sull'abc dell'impegno canonico: l'informazione non-informazione dal linguaggio criptico, indefinitamente allusivo (La mala información), la «ragnatela autoreferenziale» e vacua del politichese (insieme al battibecco assordante del malato bipolarismo italiano), l'immancabile attacco all'«Italica Versailles» della casta (Media, Dal dialogo al battibecco). Sebbene non sappia sottrarsi, indenne, alle trappole che la realtà apparecchia, insidiosamente, malgré leur agli intellettuali, La Capria torna a volare alto quando prende le distanze dal «conformismo intruppato degli impegnati» per convinzione politica, per partito preso, spesso indotti (in virtù del loro credo) a negare l'evidenza, ad esso contrapponendo la pratica di una «distrazione vigilante» dalle regioni della «non-appartenenza». Il solo plausibile campo d'azione rimane perciò il saper riconoscere l'evidenza della realtà (al riparo da ogni concettualizzazione ideologicamente orientata), attraverso la libera navigazione a vista suggerita (di volta in volta) da un inossidabile senso comune (Impegno). Lontana dalle distorsioni, la buona letteratura deve, se vuole sopravvivere, affidarsi alla «memoria fantasticata» dello scrittore, evitando la contaminazione con il mistificante e pervasivo evangelio spacciato da media e politica.

Accanto alla riproposizione degli assiomi del suo pensiero letterario, al più utili come ripasso di memoria, le cose migliori di questo, comunque sapido, libretto rimangono i pezzi più squisitamente narrativi riuniti nella sezione finale intitolata 'Album': la rievocazione della belle epoque degli anni romani della 'dolce vita', la bella confusione, il fervore creativo e intellettuale, i piaceri della conversazione conviviale, i sodalizi, i pettegolezzi letterari e l'inscindibile binomio (impossibile da non richiamare) di quel periodo con l'intelligenza agra e disillusa, pungente e distaccata di un Ennio Flaiano, i cui paradossi (a ripeterli adesso) non perdono d'un grammo la loro amara attualità (La dolce vita); il commovente racconto dell'affetto della bassotta Clementina e della sua inconsapevole prodezza compiuta per amore, solo per amore (Clementina); la cronaca intima dell'estate romana di un vicino ultraottantenne dello scrittore (Un'estate), con la penetrante descrizione della svogliatezza contigua al peso degli anni, la stanchezza naturale di vivere, l'incupirsi, avvolti nella spirale dei pensieri; e le altre belle pagine sulla vecchiaia, la strana miscela di umori contrapposti e inconciliabili che comporta, tra il peso insopportabile della noia e un'invidiabile vitalità sempre pronta a riesplodere, inattesa (La vita dopo i settanta, Album); o dove, infine, riflette sulla favola necessaria dell'esistenza di Dio e sull'altrettanto necessario misterio del suo silenzio sotto un cielo di stelle cadenti (Dio, Stelle cadenti).

Consigliato insomma, ai lacapriani, più (o meno) convinti, come il sottoscritto.

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