di Giorgio Galli
Álvaro Mutis (da Wikipedia)
Esili volontari oppure no
Ci sono persone costrette all’esilio dalle dittature o dalle tragedie di un’epoca. Persone che non sono in pericolo, ma si esiliano per obbligazione morale, per non cedere a qualcosa di inaccettabile – c’è chi si esilia anche dalla vita, per questo. E ci sono persone che nell’esilio si divertono, che godono lo spaesamento e la disperazione come i marinai di Álvaro Mutis.
Io sono una delle persone più stanziali che conosco, eppure ne ho girate, di città. La Pescara dove sono nato e cresciuto tra i fumi di provincia e il morboso rimescolarsi del mare, la Siena dove ho imparato la vita, la Firenze dove ho cominciato a lavorare, la Pesaro dove fuggivo dai miei zii quando il resto del mondo mi pareva troppo ingombrante, la Roma dove ho conosciuto mia moglie, la Londra dove ho cercato di emigrare… Eppure sono uno che torna a casa.
Uno dei miei più cari amici è come me. Lui sta nella sua città, io nella mia. Ma nessuno dei due resterà a lungo in quella città. Ci incontriamo alla stazione, parliamo, prendiamo il nostro caffè, sfoghiamo i malumori per qualche ora. E poi lui riparte. Non c’è da sbagliarsi: se dice che starà tre ore, starà solo tre ore. È confortante. L’idea che il prezzo del biglietto includa anche una scadenza mi rassicura. Non sopporto quelle persone che si trattengono, ti trattengono. Ho bisogno di tornare al mio libro, al mio sigaro, al mio quaderno. Posso cambiare casa ogni giorno, ma ho bisogno di tornare a queste abitudini. Non sono un misantropo. È che amo l’umanità così follemente da non riuscire ad amare la miseria dei singoli – neanche di me stesso.
Pescara (da Wikipedia)
Da quanti posti mi sono esiliato? Da tutti, tranne l’ultimo. Da piccolo, settembre aveva un cielo azzurro e denso. Un pomeriggio, ai miei tredici anni, l’oro del sole filtrava attraverso gli alberi, nell’azzurro denso, e sotto i ragazzi della casa di fronte giocavano a pallone. Le loro voci argentine salivano su dalla finestra. Oggi nessun settembre è così azzurro. Sarà l’inquinamento, non lo so. Ma la mia città natale non è più così. È anche questo un piccolo esilio.
Quand’ero piccolo, il giorno di San Martino si girava per la città con delle zucche, o delle scatole di scarpe, vuote, su cui ritagliavamo occhi, naso e bocca. Ci mettevamo dentro una candela, e in alto piantavamo due carote a simboleggiar le corna – perché San Martino è la festa dei cornuti. Ci presentavamo nei negozi e nelle case a chiedere soldini. Ora dalle mie parti nessuno festeggia più San Martino. Festeggiano Halloween, ma Halloween non è una festa della tradizione nostra, non ha radici nella terra d’Abruzzo. Nella mia vita, la scomparsa di San Martino ha svolto il ruolo d’una piccola scomparsa delle lucciole. Ecco un altro piccolo esilio.
Sono stato esiliato da molti posti di lavoro. La vita dopo l’università è stata tutta un esilio dal mondo del lavoro. Ho girato cercando lavoro porta a porta. Mi rispondevano “In bocca al lupo”, “I miracoli possono sempre accadere”. Mi dicevano “Cerchiamo persone con esperienza”. Io rispondevo: ma se non mi fate nemmeno cominciare, come me la faccio l’esperienza?
Siena (da Wikipedia)
Non è che non ne ho fatti, di lavori. Ne ho fatti tantissimi: giornalista stagista, collaboratore di una casa editrice, stagista in un’Agenzia per il Turismo, distributore di volantini, dimostratore di strumenti giocattolo in un grande magazzino, venditore di vini al telefono, addetto alle informazioni turistiche, portinaio in uffici pubblici, portinaio in un’azienda privata, procacciatore d’affari, produttore di assicurazioni, promoter. Lavoravo anche dodici ore al giorno, ma la paga che portavo non valeva tutto questo sforzo. Il mondo del lavoro sembrava arretrare mano a mano ch’io cercavo di approcciarlo. Come quegli incubi dove corri corri e non arrivi mai.
Siena è stata l’unico posto dove sono rimasto fermo per sei anni, a fare sempre la stessa cosa, l’università. Ho trovato lì i miei fratelli nel volontariato, nelle persone che pensano che il mondo le riguardi, in coloro che conservano negli occhi il desiderio di qualcosa d’altro, la fiducia disperata in un granulo di bellezza. Da quelle persone prendevo congedo, quando scrissi questa poesia.
Vago per questa città, in questo mese di giugno
pieno di vento, che sapori d’autunno
mi porta e non di prima estate;
e come ti scopro bella, Siena mia,
nei vicoli ove piccino in fondo a un arco
appare il Duomo, o la basilica dei Servi,
e nelle tue forti colline, che dovunque
da uno spiazzo o da una finestrella mi salutano;
nella tua maestà di Medioevo,
di mattone rosso, rosso come la fatica
di chi che ti costruì.
Siena superba,
città amata ed amara, rossa nei seggi elettorali
e nera con chi viene da lontano,
Siena faziosa e ignorante e pur splendente,
ferma ai suoi antichi splendori e chiusa al presente.
Qua sono fiorito, e qua i miei fiori
vennero spezzati:
come questi rami
che il vento rompe e struscia sull’ammattonato.
Io sono come quei rami spezzati,
come questa polvere che il sole
attraversa, come le bandiere della Torre
contorte dal vento, come gli odori della carne
delle tue infinite cene;
come gli schiamazzi, le campane
che battere fai fino a notte fonda,
come la furia, l’angustia, le risse
dei tuoi contradaioli sbronzi
e il loro sprezzo,
e come il bianco di certi muri
che rilucono di notte, nei viali, sotto un albero dalle sante foglie.
Ti lascerò fra poco, città cara,
ma come il torbido rimestarsi del mare
della mia Pescara ha avvelenato
me adolescente, lasciandomi un animo
dove tutto si rimescola e nulla
mai si riacquieta,
così la tua sobria imponenza
e la tua voglia sdegnosa di far festa
hanno scolpito me adulto coi tuoi tratti.
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