Recentemente il variegato universo liberale italiano è rimasto traumatizzato da un gravissimo scisma interno. Leonardo Facco ha proposto a Michele Boldrin di discutere in live streaming le loro diverse posizioni economiche. Sembra che Boldrin abbia telefonicamente declinato l’invito, sostenendo che non ci fosse nulla da discutere. Alchè il mondo liberale si è lanciato non tanto nella scissione dell’atomo – roba vecchia – quanto nella scissione del protone, la scissione del quark fino alla scissione del preone: “Esiste la scuola austriaca?”. Potevamo noi perderci l’occasione di prendere parte ad un dibattito interno, di nicchia e in nessun modo funzionale a sconfiggere il Leviatano? Cominciamo.
Il dibattito riecheggia l’antica divergenza tra gli austriaci e i monetaristi di Chicago. Quel comunista di Milton Friedman accettava l’esistenza di una banca centrale, eresia che gli amici austraci non hanno mai tollerato. Quì trovate una ottima lettura in materia.
L’economia austriaca “reale”, ovvero l’insieme di scritti su, ad esempio, il ruolo dell’imprenditore, l’ingerenza governativa, etc. è la più grande difesa del libero mercato mai intrapresa e tutti ne siamo debitori. Del resto, moltissime di queste teorie ormai fanno parte dell’economia mainstream. Il marginalista Menger viene studiato in tutti i libri di testo e l’utilità di Von-Neumann Morgenstern è la base di qualunque testo di microeconomia. Gli scritti di Kirzner sul ruolo dell’imprenditore sono letti da chiunque si voglia occupare in modo serio di microeconomia ed imprenditorialità. Direi quindi che l’economia austriaca reale non solo “esiste”, ma è alla base dell’intera impalcatura microeconomica moderna. Certo, il 90% dei docenti di economia sono politicamente schierati, non insegnano chi erano Menger o Morgenstern e si rifiutano di dare agli austriaci il credito che meritano. Ce ne faremo una ragione, gioendo silenziosamente del fatto che possiamo continuare a praticare un po’ di sano vittimismo liberale.
Un discorso a parte merita invece l’economia austriaca monetaria. Ogni banca centrale al giorno d’oggi svolge tre funzioni: la prima è fungere da “lender of last resort”, ovvero salvare le banche private in difficoltà, la seconda è controllare e supervisionare le banche e la terza è gestire l’offerta di moneta. Qualunque liberale credo sia d’accordo nel sostenere che la prima e la seconda funzione possono tranquillamente essere eliminate. Il dissenso nasce quando si parla di gestione di base monetaria.
Sul tavolo esistono due modelli: il primo è quello di una banca centrale che gestisce in modo estremamente conservativo l’offerta di moneta. Il secondo è quello del free banking, ovvero quello di un mercato delle valute, coniate competitivamente da varie banche, nessuna in regime di monopolio.
Partiamo dal primo modello. Quì, a mio parere, la scuola austriaca perde lucidità. Mentre posso essere d’accordo che legare l’offerta di moneta ad una materia prima scarsa possa fungere da vincolo per impedire che se ne emetta troppa, non capisco come mai questa materia prima scarsa debba necessariamente essere l’oro. L’oro non ha nulla di speciale. Si potrebbero usare i diamanti, l’iridio o addirittura l’astato, un materiale talmente raro che si stima ce ne sia solo 1 grammo nell’intera crosta terrestre. Inoltre, anche sotto un “Astatine standard”, rimarrebbe la questione di quanti euro emettere per ogni grammo di astato custodito nei forzieri. In altre parole, il rapporto tra materiale scarso e base monetaria è il prodotto di un equilibrio istituzionale, esattamente come lo sono oggi le decisioni sui tassi della FED. D’altronde la progressiva diluizione del contenuto aureo è il motivo per cui alla fine si è abbandonato il gold standard. Quindi secondo me è importante concentrasi sull’analisi istituzionale delle banche centrali e non tanto nel lottare per proporre un gold standard. In questa direzione, gli studi di public choice o di political economics sono secondo me molto più avanti della scuola austriaca.
Il secondo modello è il free-banking: le monete eccessivamente inflazionate vengono abbandonate e la banca “centrale” che le emette fallisce. Questo spinge il mercato delle valute verso un equilibrio in cui nessuno inflaziona la propria valuta. L’idea è interessante e può funzionare. Esistono però dei problemi che secondo me ne minano l’applicabilità. Innanzitutto io non credo che l’equilibrio debba necessariamente essere “inflazione zero”: le varie banche centrali potrebbero colludere per generare inflazione, esattamente come ogni impresa può colludere per fissare i prezzi. In secondo luogo, l’equilibrio “inflazione zero” dovrebbe essere dinamicamente ottenuto grazie al comportamento “punitivo” dei consumatori, che continuano ad abbandonare valute svalutate a favore di valute stabili. Io faccio fatica ad immaginare un mondo in cui il grande pubblico comprende cosa sia l’inflazione ed è disposto ad affrontare gli “switching costs” necessari per punire il proprio erogatore di moneta. Dopo quindici anni, gli italiani non hanno ancora metabolizzato il passaggio dalla Lira all’Euro, figuriamoci se sono in grado di vivere in un sistema monetario in cui devono cambiare valuta ogni quattro o cinque anni. Probabilmente il risultato sarebbe simile al Marco gestito dalla Bundesbank, ovvero una moneta abbastanza stabile con l’un per cento di inflazione annua. Insomma, mi sembra che il gioco non valga la candela.
L’ultimo approccio della scuola austriaca che non mi convince è quello metodologico, in particolare la loro convinzione che la matematica e la statistica non servano a comprendere l’economia. Nei miei studi economici posso confermare che l’uso della matematica mi ha enormemente aiutato a comprendere concetti difficili. La matematica possiede la capacità di veicolare concetti complessi tramite formule e spesso il rimaneggiamento di queste formule permette di scoprire relazioni “nascoste”, per me molto più difficili da scoprire a parole. Rispetto chi si trova più a suo agio in un contesto umanistico, allo stesso modo però non accetto che le mie amate formule vengano bollate come stregoneria, semplicemente perchè qualcuno non si trova a suo agio in loro compagnia. Vi assicuro che le formule possono essere ragazze deliziose, se manipolate nel modo giusto. Altro che olgettine!
L’opposizione all’uso della statistica invece mi è più oscuro. Le serie storiche di variabili economiche possiedono una loro “memoria” o “struttura”. La statistica aiuta semplicemente ad indagare queste caratteristiche, senza la pretesa di ridurre il fenomeno studiato a queste sole caratteristiche statistiche e senza la pretesa di proporre questi modelli statistici come modelli olistici del fenomeno in questione. Il fatto che qualcuno là fuori non sappia usare la statistica o non ne conosca i limiti non ne mina la legittimità come strumento d’indagine. Guns don’t kill people, people kill people.
Questi modelli vengono in contro alla necessità di formarsi aspettative per il futuro. Ad esempio, chi lavora nel settore petrolifero ha la necessità di capire quale sarà il prezzo del greggio tra un mese. La statistica può cercare di generare delle stime future, ma non pretende di racchiudere nel modello statistico l’intero funzionamento del mercato petrolifero. Per un economista austriaco la conoscenza della statistica rappresenterebbe sicuramente un asset molto spendibile sia nel mercato del lavoro sia nel settore accademico.
GGV