Magazine Cultura
Durante la giornata del primo maggio molti esercizi commerciali rimarranno aperti. Parlo dei centri commerciali, veri e propri templi della modernità assai più importanti (e affollati) di chiese e basiliche. La cosa, in fondo, fa felici in tanti: i commercianti, che sarebbero stati danneggiati da una domenica doppiamente festiva; molti “consumatori” (orrendo neologismo della società mercantile d’oggi), che avranno a disposizione del tempo per fare compere, oltre che per mangiare un gelato e passeggiare al chiuso in luoghi che riproducono in modo surrettizio l’ambiente esterno. Fontane, piante finte, luminosità accecante, aria condizionata; infine, molti sindaci, anche di sinistra che una qualche giurisdizione sugli orari di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali la possiedono.
Cercando di evitare la retorica e gli sbadigli, mi viene in mente questo pensiero. Una delle aspirazioni delle classi lavoratrici dell’800 e dell’inizio del ‘900, credo, era quella di svolgere un lavoro più umano, dunque di godere di maggiori diritti, sia salariali, sia, per così dire, “ambientali”. Oltre al diritto alla malattia, alle ferie, a un orario di lavoro ragionevole, alla sicurezza, al rispetto delle donne lavoratrici, esisteva anche l’aspirazione a un’esistenza più libera “dal” lavoro. Avere un salario maggiore significava, per esempio, guadagnare non solo per mangiare, ma per far studiare i propri figli, per andare in vacanza, per comprare una casa sana, bella, insomma per vivere, non solo per esistere. Dunque, un miglioramento delle condizioni di lavoro non mirava, ovviamente, a liberarsi “dal” lavoro, bensì ad affrancarsi dalla dipendenza assoluta e totale dal lavoro. In questo senso, la nascita di una festa dei lavoratori, simboleggiava, o almeno, avrebbe dovuto simboleggiare, il riconoscimento al lavoro di un valore extra-economico ed extra-sociale, ossia, direi, “personale” e “culturale”. Per questo è sempre apparso ovvio che il giorno della festa dei lavoratori non si lavora…
Oggi invece, in un mondo dove il lavoro è tornato precario e dove alcuni diritti consolidati dei lavoratori sembrano in discussione, l’essere umano, per colpa o per costrizione, appare tornato a vivere in una dipendenza assoluta dal lavoro. E per molte persone il guadagno è qualcosa che non affranca, ma che sovente non basta e non soddisfa mai.
Oggi sembra che la nobile aspirazione di liberarsi dalle necessità prime dell’uomo sia stata tradita: per molti individui è essenziale consumare il più possibile, affogare se stessi in un’orgia di materialità, forse perché ci si percepisce incapaci di pensare ad altro, alla spiritualità, alla cultura, alle idee, all’arte. Comprare, possedere, spendere, sono i tre comandamenti che dominano il nostro tempo. Ogni occasione è buona per guadagnare o per spendere: non esiste il primo maggio, non esiste Natale, non esiste festa che diventi effettivamente un momento di quiete, di possibilità di ripiegarsi su se stessi. Tutte queste attività spaventano perché portano con sé il rischio di percepirsi vuoti e fragili. Di fronte a una spiritualità impalpabile, a una conoscenza di sé faticosa e, per sua essenza, immateriale e intangibile, si preferisce il possesso di un bene materiale facilmente raggiungibile (benché solo in apparenza, sebbene nei centri commerciali i prodotti occhieggino colorati nelle corsie e sia facile allungare una mano e impossessarsene) e dotato di una consistenza, di un peso, di un volume e di un prezzo. Esso possiede un valore commerciale e strumentale che spesso si trasforma in valore simbolico: per esempio, un certo oggetto, si pensi a un telefonino o a un’automobile, diventa simbolo del successo sociale, dell’emancipazione.
È vero che con la cultura non si mangia, né è obbligatorio che il primo maggio si vada tutti in piazza con i sindacati oppure a teatro o al cinema o in libreria; ma è pur vero che l’uomo non è solo un essere “mangiante”. È vero che il lavoro ha un valore fondamentale, perché grazie al lavoro si può vivere e ci si può affrancare da un’esistenza precaria, ma è altrettanto vero che il lavoro è un’attività, ossia rappresenta una tra le diverse dimensioni della vita dell’uomo e perciò non possiede un valore assoluto, né può essere considerato l’unico valore. Il lavoro possiede invece un valore strumentale, perché è un’attività che serve per fare altre cose: nella maggior parte dei casi, infatti, chi lavora svolge un’attività che non si esaurisce in sé, ma che diventa (o si spera che possa diventare) strumento per “fare” altre cose.
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