Carlo Ruta
Con il libro “Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dal Vietnam all’Afghanistan”, uscito per i tipi di Mimesis Eterotopie, Carlo Ruta pone una questione centrale nell’era della globalizzazione. Non riguarda, in astratto, i conflitti e la loro natura, le questioni più o meno plausibili che essi sollevano, ma l’analisi critica della teoria di Michael Walzer in una sua opera ormai classica, “Guerra giusta e ingiusta”. Una lettura critica da parte di un intellettuale americano che ha come campo di osservazione l’istituzionalizzazione delle logiche di dominio di un Paese democratico come l’America.
La questione iniziale che Ruta affronta, prende lo spunto dalla necessità di sapere se la dottrina del filosofo politico “sia stata in grado di intercettare, dopo il Vietnam, le istanze dell’America ufficiale”. Ma non solo di questo si tratta. Traspare, già dal titolo, una contestazione di fondo che ha radici umanistiche e legalitarie lontane nel tempo.
L’uomo si è, infatti , sempre interrogato sulle ragioni della guerra e, nel corso della sua storia si è dato risposte sempre compatibili con il suo bisogno di dominio. Alla domanda se sia giusta una guerra, risponde di sì se ciò gli serve. E’ sempre stato così dall’epoca delle caverne alla recente presa di posizione dei paesi occidentali sulla Libia.
Dunque queste prese di posizione evidenziano le varie legittimazioni che della guerra si sono avute nel corso della storia e il dato di fondo che ci possano essere guerre “giuste” laddove la causa che le promuove abbia una sua ragion d’essere nella fede, nella difesa dei modelli di civiltà. Insomma nell’eterna storia paranoica del male contro il bene e nel diritto a ricorrere alle armi in via preventiva, pur di non soccombere.
Ragioni di ordine sottilmente psicologico che hanno fatto le vicende umane dall’epoca dei patriarchi del Vecchio testamento, dai padri della Chiesa ai nostri giorni. Costantino vinse le sue guerre nel segno della Croce e l’Europa conquistò il Nuovo mondo allo stesso modo commettendo atroci stermini.
Stando alle stesse logiche, già alla fine della seconda guerra mondiale, gli Usa hanno avviato un allargamento del loro orizzonte politico, imponendolo a modelli di cultura diversi, utilizzando parametri ideologici. La guerra è stata soprattuto uno scontro della democrazia contro i modelli di dittatura comunista. Il caso del Vietnam è solo un punto di partenza nell’analisi di Walzer, preso in esame da Ruta. Divergente rispetto al comune sentire dell’opinione pubblica che avverte la guerra come “una caduta morale” e comincia a parlare di “guerra sporca”.
Scrive il nostro autore: “Walzer argomenta che la guerra giusta è possibile a determinate condizioni e che la convenzione bellica, lungi dall’essere un inutile orpello, può costituire un espediente razionale per imbrigliare i conflitti fra Stati, allo scopo di ricondurli il più possibile a una dimensione morale”.
E’ un tema, questo, che sollecita diversi altri filoni di lettura. Ad esempio quella dei pacifisti, per i quali la guerra è sempre un crimine. Nel caso della “teoria dell’aggressione”, però, il filosofo americano afferma che gli Stati, di fronte a una guerra di aggressione “godono di due diritti fondamentali: l’integrità territoriale e la sovranità politica”. Spiega così che “l’aggressione giustifica tanto una guerra di autodifesa quanto una guerra di rivendicazione del diritto violato”. E’ il caso della guerra del Terzo Reich nazista, dell’aggressione americana in Vietnam, o dell’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa di Breznev .
In generale, scrive Ruta, gli Stati nella storia hanno sempre potuto giustificare le proprie aggressioni sostenendo i propri diritti e giustificando la guerra con i torti degli altri., fino all’accettazione dell’attacco preventivo, necessario a eliminare la minaccia dell’aggressione. Materia, questa, che trova le sue prime argomentazioni teoriche nella diffusa cultura del giusnaturalismo di epoca secentesca (Ugo Grozio) prima ancora che l’illuminismo desse nuove basi alla nozione del diritto internazionale.
Un vero e proprio prodotto delle società borghesi in ascesa e alla ricerca dei propri fondamenti ideologici e cultuali capaci di rispondere alle situazioni imposte dalla storia contemporanea. E’ il caso di ciò che scrive Walzer a proposito della guerra scatenata da Israele contro i Paesi arabi confinanti, o della dichiarazione di guerra da parte degli Usa contro l’Iraq di Saddam Hussein (2003). A questa data si arriva attraverso un lungo percorso che porta gli Usa di John F. Kennedy a sostenere lo stesso principio dell’attacco preventivo a proposito del conflitto con l’Urss per la questione dei missili atomici a Cuba, alla guerra nel Vietnam, fino ad arrivare all’attacco della Nato nel Kossovo e, nel 2001, all’ Afghanistan.
L’analisi di Ruta è scrupolosa e certosina, probabilmente sollecitata da ragioni umanitarie e dai disastri che si aprono continuamente nel mondo a causa dello scarso potere di dialogo tra i popoli e spesso per l’insufficienza o i ritardi di intervento delle stesse Nazioni unite di fronte a conflitti imprevisti, o cronicizzati. Essa prende in esame una sorta di manuale dei profili giuridici della guerra, smontandone le ragioni più dottrinarie finalizzate a legittimarla laddove questa è sempre un male estremo e irreparabile.
In questo senso trova una sua esatta giustificazione l’azione di guerriglia come “risposta necessaria alle logiche della guerra convenzionale più che alla tradizione della “guerra giusta”. Pur nella sua semplicità, Ruta, insomma, ci dà una riflessione complessa e attuale, specialmente in un tempo, come quello che abbiamo davanti, in cui rivoluzioni e sconvolgimenti vari pongono al centro la questione non solo della legittimità della guerra tra di Stati, ma anche quella delle guerre intestine che stanno travagliando il mondo. Ad esempio quello arabo.
Tema, questo, che l’esame storico ci aiuta a meglio definire, se si pensa al terrorismo algerino contro la dominazione francese, ai vari Fronti di Liberazione nazionale che esistono nel mondo, a cominciare dalla lotta palestinese per la propria terra, dalla guerra di liberazione cubana, condotta da Fidel Castro e Che Guevara contro la dittatura di Batista.
Secondo Walzer le “risposte militari” (ad esempio quelle di Truman contro i giapponesi a Hiroshima e Nagasaki), “furono inopportune e terroristiche, computabili quindi come crimini”, in assenza di una assoluta necessità a fare uso delle bombe atomiche. “Le ragioni di Walzer nell’argomentare in negativo – scrive Ruta- si possono ben comprendere. Dovrebbero essere resi ammissibili, se non legittimi, atti militari che ripugnano alla coscienza, laddove siano derivanti da uno stato di necessità”. Anche nel mutato quadro globale la dottrina di Walzer resta coerente con se stessa. Anzi. Scrive l’autore del libro:
“Nella mutata situazione geopolitica, la dottrina di Walzer fa scuola del resto ben oltre i confini dell’establishment. […] Norberto Bobbio giustifica la guerra all’Iraq del 1991, ritenendola una articolazione della legittima difesa del Kuwait, e, seppure con dei distinguo, quella portata dalla Nato alla Serbia di Milosevic a fine decennio. In definitiva è giusta per il filosofo torinese la guerra che viene combattuta in difesa di valori umani universali, che sia finalizzata comunque a una pace positiva retta sulla giustizia”. Dal canto suo, Jürgen Habermas, fatto proprio il medesimo paradigma, sostiene che la democrazia in determinate emergenze si possa imporre coattivamente. Suggerisce quindi la formazione di forze armate neutrali di pronto intervento, una sorta di polizia internazionale, capace di valutazioni imparziali e misurate.”
Necessità, questa, dettata dall’insorgenza del terrorismo internazionale, dopo l’attentato alle Torri gemelle, l’11 settembre 2001. Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizza attacchi preventivi, quando ciò si rende necessario. Ma sono gli Usa, soprattutto, a modulare una cultura bellicista i cui riflessi sono visibili nei nuovi linguaggi messi in campo dalla diplomazia internazionale. Se una guerra è giusta sono anche accettabili gli “effetti collaterali” che comportano stragi di civili, le azioni di presidio delle aree di guerra diventano “missioni umanitarie”, e le “rappresaglie” le risposte immediate ad atti terroristici. Il fine della guerra giusta, differente, nota Ruta, a livello di popolazioni coinvolte e di politiche statali, diventa comunque una sorta di dovere etico giustificato, per le masse popolari, dal consenso verso una visione morale della guerra, nonché dalla valutazione del “non essere morti invano”, ma per una causa che consegna ai posteri un qualche beneficio.
Le logiche aggressive della guerra inducono così a trattare l’intervento militare sotto ben altri profili. Come quando – rileva Ruta – gli Usa, tra il 1950 e il 1953 intervennero contro la Corea del Nord, ponendosi come obiettivo “la totale distruzione del regime nord-coreano.
La dottrina della guerra giusta è esposta da Walzer in Wars dove si pongono le condizioni per l’attacco bellico preventivo. Fatto che si può scatenare con la messa in atto del “primo colpo” a fronte di attività concrete da parte del nemico quali la mobilitazione delle truppe, le alleanze militari, le incursioni, ecc. Giustificazioni che il sociologo americano trae dalla guerra dei sei giorni condotta da Israele. Da qui Walzer esorbita dalla casistica storica. E giunge a un punto inequivocabile costituito da un limite proprio del “giocare d’anticipo per scompigliare le carte” del nemico. E’ il caso, ad esempio, dell’attacco preventivo e unilaterale mosso, però, da “una serie di artifici dall’amministrazione Bush”. Scrive l’autore:
“Era stato detto che, per la tutela degli interessi americani, era necessario scoprire e distruggere l’arsenale chimico del regime iracheno, risultato in realtà inesistente. A tale fase, che echeggia l’utilitarismo classico, è seguita tuttavia quella di un più mirato tornaconto, in chiave affaristica, testimoniata dalle trattative, largamente pubbliche, che hanno avuto luogo per la divisione del bottino della ricostruzione. La terza fase, che ammicca appunto al silenzio della
morale, è quella degli abusi nella caserma di Abu Ghraib, dei turisti che ricercano emozioni nei luoghi del conflitto, dei magnati statunitensi e di altre nazioni che si fanno fotografare in posa da safari, attorniati da mercenari e bodyguards”.
Da qui la domanda che percorre tutto il libro di Ruta: è ammissibile una guerra giusta? Quella, insomma che Walzer definisce nei limiti dell’”estrema ratio”? La risposta è il dubbio. O meglio la soggettività della coscienza di chi è preposto ad intervenire.
Ma la risposta più saggia è una sola: le guerre sono sempre ingiuste. E per un fatto semplicissimo: sono il risultato dell’incapacità degli uomini a risolvere a monte i problemi posti dai conflitti.