Perché ripubblicare, oggi, Esperienza e educazione di John Dewey? A mio avviso, quella dell’editore Raffaello Cortina è un’operazione di recupero quasi obbligata: inutile nascondere che, adesso come allora (più di allora?) i metodi educativi, e in particolare quelli scolastici, sembrano necessitare di una revisione, quanto mai massiccia, che parta dalla base. E quest’opera del 1938 ridiscute tanto l’approccio autoritario quanto quello indulgente, in favore di una sintesi metodologica che possa giovare tanto allo sviluppo del singolo fanciullo quanto alla comunità e alla società nella quale egli si troverà a vivere – o meglio, che egli stesso contribuirà attivamente a costruire.
Innanzitutto, più che di pedagogia in senso stretto, quella di Dewey è una filosofia dell’educazione. E, in questa “filosofia pedagogica”, la dialettica educatore/educando, come pure quella docente/discente, ha come scopo una educazione progressiva nella quale, individuate le singole capacità dell’alunno, gli si offrano degli strumenti utili a sviluppare le sue potenzialità. Naturalmente, per far questo occorre combattere in primis il carattere rigorosamente non sociale dell’impianto scolastico tradizionale, che fa dell’esercizio del silenzio la sua principale virtù. Nelle parole di Dewey: «Occorre farla finita con i metodi della camicia di forza e della corvée».
Non a caso, i termini che ricorrono maggiormente nel testo sono “esperienza” e “pratica”. Il nuovo impianto deve infatti puntare molto sui principi della continuità e dell’interazione: continuità fra desideri, esperienza e progetti (ancora una volta: individuali e sociali al contempo), e interazione fra teoria e prassi (ovvero fra sviluppo del pensiero critico e sviluppo delle abilità manuali-materiali) sono infatti fondamentali per la formazione di soggetti sociali che possano essere degli agenti attivi, ossia che sappiano operare responsabilmente per il bene di se stessi e della collettività.
«Il problema centrale di un’educazione basata sull’esperienza è quello di scegliere il tipo di esperienze presenti che vivranno fecondamente e creativamente nelle esperienze che seguiranno». Con questa frase, Dewey allude all’importanza di eliminare l’aut-aut fra un apprendimento che avvenga esclusivamente attraverso l’esperienza mondana e uno che, in maniera altrettanto infeconda, derivi totalmente dai libri, dai maestri e da un’aula di scuola. Solo all’apparenza scontata, questa posizione ha come suo orizzonte ultimo la libertà.
Esposta nel capitolo centrale dell’opera, la dissertazione sulla libertà è forse la più interessante del volume. Dapprima viene precisato che, in una immediata accezione, la liberta si riferisce alla motilità del bambino: i bambini accettano di buon grado le regole e la disciplina, più di quanto si sia comunemente disposti a credere; ma rifiutano comprensibilmente il ruolo di un capo che «fa troppo il padrone» e che cerca di militarizzarli con movimenti a comando. Da qui si passa poi alla seconda, e più pregnante, accezione che questo concetto assume, laddove «La sola libertà che ha durevole importanza è la libertà dell’intelligenza, vale a dire la libertà di osservare e di giudicare».
Quanto alla libertà di giudizio, mi concedo una riflessione personale: in italiano utilizziamo spesso il verbo “giudicare” come sinonimo di “condannare”; ma, come insegna Kant, un giudizio che sia davvero tale è già in sé giusto. Ovvero: il giudizio ingloba già di per sé (etimologicamente e concettualmente) la capacità di discernere bene (e di discernere il bene dal male). Non è un caso, dunque, se la scansione che parte da iustitia, iustitiae (giustizia), e che procede con ius, iuris (diritto) e iudex, iudicis (giudice), conduce appunto a iudicium, iudicii. Ed ecco allora che una cattiva educazione porta, di conseguenza, una comunità potenzialmente giusta a diventare una comunità viziosa, in cui l’intelligenza lascia troppo spesso il posto a facili, numerose e ingiuste condanne.
John Dewey, Esperienza e educazione [1938], Raffaello Cortina Editore, Minima, Milano 2014, 85 pp., 10 euro