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Gilioli si sente un privilegiato. Non ha torto, perché lo è rispetto a tanti. Volendo, tuttavia, non potrebbe sentirsi tale. Voglio dire che potrebbe non bastargli quello che ha e sentire privilegiato chi ha più di lui. Sennò pensare di avere esattamente quel che merita e che dunque parlare di privilegio sia per lo meno improprio. Invece dice che gli basta quello che ha e che per dirsi felice – sì, parla proprio di «felicità» – gli manca solo «che lo siano anche quelli che vedo intorno a me». Non poco, direi, perché questo implicherebbe non solo che tutti avessero ciò che rende quasi felice lui, ma che riuscissero pure a farselo bastare. Ora, non c’è dubbio che, ad avere quello che lui ha – ma anche di meno, probabilmente, e forse anche molto di meno – chi non l’ha potrebbe anche star meglio di come sta, e tuttavia pretendere che a costui possa bastare al punto da potersi dire felice implica che Gilioli vuole l’impossibile, cioè che il concetto di «felicità» sia uguale per tutti. Si badi bene, non gli contesto che si dichiari quasi felice per ciò che si fa bastare: penso anch’io che solidi affetti, bisogni non eccedenti le proprie disponibilità e un lavoro che piace non siano affatto poco, anzi, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che siano moltissimo. Quello che gli contesto è il vagheggiamento, sul piano ideale, e la ricerca, su quello pratico, della sua piena «felicità» nella pretesa, sul piano ideale, e nella proposta, su quello pratico, che quanto essa rappresenta per lui possa, e dunque debba, rappresentarsi in quanto tale per tutti. Nella migliore delle ipotesi direi si tratti di un filantropismo un po’ paternalistico, nella peggiore direi si tratti di un cristianesimo senza Cristo, discretamente appiccicaticcio. Quello che però ritengo sia assai più significativo è il motivo che Gilioli adduce al bisogno che il suo concetto di «felicità» possa, dunque debba, essere uguale per tutti: dice che si tratta di «senso di colpa», «un po’ quel meccanismo che ha portato a suicidarsi non pochi degli scampati all’Olocausto, che non sopportavano di essere tali, più o meno a caso, mentre altri, più o meno a caso, non ne erano scampati». È questo che ci consente di escludere l’ipotesi di comunismo, che è roba più scientifica che psicologica. Dunque rimane quella del filantropismo un po’ paternalistico, e allora credo la questione – se di questione vogliamo parlare – si ponga nel chiederci cosa autorizzi Gilioli ad amare il prossimo suo come non è detto il prossimo suo voglia essere amato. E naturalmente non parlo di quella porzione del prossimo suo che ne condivide il concetto di «felicità» (lì dentro, in fondo, non mi troverei a disagio neppure io), ma di quella che lo rigetta perché immune dai problemi psicologici di Gilioli. Il quale non è un fesso e intelligentemente ammette che quanto è a fondamento del suo «essere di sinistra» è «una cosa egoista». Viene da chiedersi quale sia lo spettro psicologico che include questo «essere di sinistra», perché, se dall’avere ciò che si ritiene basti a rendere quasi felice è naturale attendersi un «senso di colpa», dal non averne è naturale attendersi quell’«invidia» che per taluni sarebbe a fondamento psicologico dell’«essere di sinistra». Un Gilioli così inconsapevolmente berlusconiano, e chi se lo aspettava?
Comparo questo «essere di sinistra» a quello di un Diciottobrumaio o di un Alterlucas e ci sento passare la stessa differenza che passa tra Florence Nightingale e Marie Curie. Scopro un Gilioli umorale, disarmato e disarmante, e nel giudicarlo così mi sembra quasi di fargli un torto, sicché mando un sms a chi penso possa dare un giudizio più avveduto: «I primi tre aggettivi che ti vengono per Gilioli?», chiedo. E la risposta è: «Autentico, appassionato e un po’ pirlone».
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