Magazine Fotografia
Sto leggendo il bel volume di Martino Nicoletti, un antropologo italiano, dedicato a Chaturman Rai, "fotografo contadino dell'Himalaya" (Exorma edizioni, Roma). Chaturman non è un fotografo importante, non è famoso, non utilizza attrezzature evolute. In realtà, scatta con una vecchia fotocamera di plastica, fabbricata in Cina, e per rifornirsi dei rulli, anch'essi cinesi -e per farli poi sviluppare- deve andare nella città più vicina, a due giorni di cammino. Due giorni! Ovvio che centellini gli scatti con estrema cura.
Non è un professionista nel senso che intendiamo noi, ma Chaturman è certamente un grande fotografo. Lo è per diritto naturale, mi verrebbe da dire, perché fotografa con la stessa immediatezza, profondità e attenzione con cui dovremmo fare ogni cosa: ma noi viviamo nel paese della superficialità, e della velocità. Abbiamo fretta, sempre fretta: dovremmo capirlo che la nostra sete di fare sempre presto finisce per privarci della necessaria profondità, e così scivoliamo sulle nostre vite e senza rendercene conto rinunciamo alle emozioni più sincere. La storia di Chaturman Rai narrata da Nicoletti è commovente e ricca di spunti di riflessione per chiunque, a maggior ragione per un fotografo. Mentre noi stiamo lì, davanti al monitor piatto hi-tech del nostro computer con 16 Gb di RAM per elaborare le nostre foto a 16 bit e da 26 megapixel, ci sono fotografi, in Nepal, che stampano i propri negativi a contatto grazie alla luce di una candela! Se non è poesia pura, questa, cos'altro lo è? Voglio provare anch'io, un giorno, a stampare una foto con la luce di una candela: diamine, dev'essere fantastico!
Lo so cosa state pensando: se nei villaggi nepalesi ci fossero i computer e le fotocamere digitali, ora Chaturman invierebbe le sue foto su Flickr per condividerle col mondo, altro che! Forse è vero, ma chi se ne frega: mi piace pensare che tra le alte montagne che fanno da cuscinetto tra India e Cina (e già questo è emozionante) il computer arriverà, forse, ma non riuscirà a scardinare le millenarie abitudini dei contadini, il loro modo di guardare alla Natura, e agli spiriti che la animano, il loro modo di intendere la vita, e le relazioni personali. Perché, sapete, è questo che rende interessante la storia di Chaturman, non solo il modo primitivo con cui scatta le sue foto. E' la totale, completa assenza di sovrastrutture, la loro immediatezza, semplicità, il loro modo di cogliere la realtà senza filtri, senza tecnica, senza finzioni, senza secondi fini a stupire e a lasciare senza fiato. Sono foto belle? Non lo sono: sono meravigliose, questo sì, nel vero senso della parola. Generano meraviglia, empatia, voglia di capire. Sono così deliziosamente lontane da ciò che noi concepiamo come "fotografia", che sembrano una ventata d'aria fresca in un mondo stagnante e francamente oramai privo di vitalità. C'è stato un tempo in cui anche noi riuscivamo a guardare il mondo in questo modo, e quel mondo era bello e degno di essere guardato. Poi abbiamo deciso di cambiarlo, quel mondo, e lo abbiamo fatto in peggio; le foto di oggi sono le foto di una sconfitta, sempre. Se rappresentano il bello e il buono, lo fanno per affermare che il buono e il bello esistono ancora, nonostante tutto. Se rappresentano il brutto e il malvagio, lo fanno con l'intenzione di dimostrare quanto in basso siamo caduti. In ogni caso, non ne usciamo bene.
Chaturman Rai, invece, non giudica e non valuta, ma rappresenta: tra le verdi valli nepalesi, ai piedi delle montagne più alte della Terra, ciò che è e ciò che appare possono ancora sovrapporsi, in buona parte. Il candore è quello di certe foto che tutti noi abbiamo visto almeno una volta negli album di famiglia un po' ingialliti, quelli di trenta, quaranta anni fa. Ora anche gli album di famiglia sembrano aver perso l'immediatezza e la spontaneità: sono orrendamente kitsch e boriosi come la nostra società, piegata ai voleri del mercato, dell'arricchimento, dell'apparire. Un contadino nepalese si fa ritrarre con quello che ritiene il suo vestito più significativo, la t-shirt filo-occidentale che fa più figo, o il copricapo tradizionale che indica la sua condivisione dei valori nazional-popolari, ma in ogni caso non c'è trucco, né inganno, la sua personalità è quella che vedi. Nelle foto che appaiono sui giornali e nelle riviste, o nei ritratti scattati dai fotoamatori, o anche dai grandi fotografi di moda, non riconosci nemmeno un'anima: sembrano tutti manichini in posa, speranzosi di apparire ciò che non sono. Aprite gli occhi, guardatevi intorno: nella società dell'apparire, del sembrare, tutto diviene indecifrabile.
Si può essere post-comunisti e andare a passare le feste di Natale a Saint Moritz, in un hotel di lusso (qual'è il messaggio? Che Saint Moritz è una mèta per tutti, o che essere di sinistra non significa essere necessariamente sfigati?), si può essere il più arrogante degli industriali, il più assatanato dei liberali capitalisti, indossando sempre un modesto maglione nero (o blu scuro?) dal collo alto; si possono insultare gli avversari, deridere chi non la pensa in modo "giusto", si può essere superficiali e ridanciani e infine affermare di essere dediti agli altri, fondando un "partito dell'amore", esattamente come è possibile dichiararsi dediti all'amore totale per gli altri, e poi violentare dei bambini.
Chi siamo noi? Cosa facciamo davvero? Chi cerchiamo di ingannare, e come? Cosa sono quelle immagini stampate su carta fotografica che mandiamo in giro per il mondo a rappresentarci: frutto di ideologia e immaginazione, o realtà? La contadina che Chaturman riprende al fontanile mentre riempie di acqua un povero contenitore non è altro che una povera contadina nepalese. E oggi, che finanche gli operai hanno perso, in occidente, il senso della propria identità, quanta ricchezza c'è nell'apparire nient'altro che sé stessi!
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