Essere o non essere… europei? L’eterno dilemma britannico

Creato il 20 dicembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Federica Castellana

L’assenza del Primo Ministro inglese David Cameron alla cerimonia di consegna del Nobel per la Pace all’Unione Europea non è passata inosservata e, per quanto simbolica, di certo non giova ai rapporti notoriamente difficili tra Londra e Bruxelles. Ad Oslo c’era invece il vice-Premier Nick Clegg, leader del partito liberaldemocratico ed esponente della minoritaria corrente europeista d’oltremanica, dove l’euroscetticismo è storicamente di casa ed è amplificato oggi dalla crisi economica ed istituzionale dell’UE.

D’altronde il Regno Unito, mai completamente guarito dal complesso dell’Impero e dalla propensione all’isolamento rispetto al continente, ha acquisito nel tempo una posizione singolare e complessa all’interno dell’UE, quasi da membro scomodo. Dagli opt-out che lo esonerano da una serie di cooperazioni rafforzate (come l’area Schengen, l’Unione Monetaria e quindi l’Euro, il Fiscal Compact, la vincolatività della Carta dei diritti fondamentali) alle forti resistenze contro la tassazione delle transazioni finanziarie e la supervisione bancaria europea, Londra ha sempre preferito una membership al ribasso nell’UE, ovvero una partecipazione limitata ad alcuni livelli di integrazione (essenzialmente il mercato unico) e comunque non priva di contrasti.

Lo spettro del bilancio europeo

Sin dall’adesione alla CEE nel 1973, le maggiori insofferenze britanniche si sono concentrate sul bilancio comunitario, tanto sulle entrate quanto sulle uscite: in sostanza, cioè, sul cosiddetto “saldo netto”. La Gran Bretagna, infatti, avrebbe versato a Bruxelles una contribuzione (basata sul Reddito Nazionale Lordo) ben superiore rispetto ai benefici incassati (all’epoca principalmente erogazioni della politica agricola comune, la PAC) ma negli anni è riuscita a difendere lo status di contributore netto ed ottenere importanti strumenti di compensazione: l’istituzione di uno dei fondi strutturali per lo sviluppo regionale (il FESR, anche grazie al supporto italiano) ed uno sconto specifico sui propri versamenti (l’UK rebate). Il saldo netto ha poi guadagnato sempre più centralità durante i negoziati per la determinazione del bilancio europeo, non solo per i britannici e specialmente dai periodi di programmazione 2000-2006 e 2007-2013, successivi all’allargamento ad Est.

Il dibattito sul prossimo bilancio dell’UE (2014-2020) è già in corso e si sta rivelando particolarmente difficile a causa della congiuntura economica negativa, del generale clima di austerità fiscale e delle ferme posizioni euroscettiche di alcuni Stati membri, grandi contribuenti netti, che contestano le proposte interistituzionali europee sull’incremento del budget e che mirano invece a ridurne la dimensione e gli esborsi per ridurre gli stessi contributi nazionali. Tra questi Paesi ci sono Austria, Finlandia, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia guidati naturalmente dal Regno Unito, che sta portando avanti – con il forte sostegno della stampa – anche una campagna contro gli sprechi della burocrazia europea: stipendi privilegiati, indennità per trasferte, ferie e rimborsi degli eurocrati che il Premier Cameron ha definito “un universo parallelo” in confronto ai tagli imposti ai Governi nazionali e un “insulto ai contribuenti britannici”. L’intesa tra i Paesi rigoristi non piace però ai grandi beneficiari delle politiche redistributive europee (in primis Francia, Italia, Spagna e Polonia). Così lo scorso 23 novembre il vertice del Consiglio europeo si è concluso con un sostanziale fallimento: nessun accordo raggiunto sul bilancio dell’UE e trattative rinviate al 2013. Sul tavolo ci saranno ancora una volta saldi netti, compensazioni, sussidi all’agricoltura e fondi di coesione regionale .

Partiti e cittadini: questione di punti di vista

Nello scenario politico britannico l’euroscetticismo accomuna i conservatori di Cameron e, su posizioni più estreme e populiste, i partiti nazionalisti di destra tra cui l’UKIP (United Kingdom Independence Party) del parlamentare europeo Nigel Farage, noto per le sue numerose battaglie a Strasburgo in difesa delle prerogative degli Stati membri. Europeisti convinti sono invece i Liberal Democrats del vice-Primo ministro Nick Clegg, favorevoli ad un’evoluzione anche in senso federalista e priva di veti purché subordinata a un ruolo più incisivo dei Parlamenti nazionali. Il partito laburista attualmente è diviso sull’Europa, ma ha attenuato fortemente il suo tradizionale scetticismo soprattutto durante la leadership di Tony Blair (1994-2007).

Recentemente lo stesso Blair è sceso in campo per rilanciare un europeismo “all’inglese” e più lungimirante, fondato esplicitamente su motivazioni di realpolitik. Secondo l’ex Premier britannico un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’UE (la cosiddetta “brexit”) sarebbe un grave errore in termini di interessi strategici nazionali: tornando all’isolamento, il Paese perderebbe innanzitutto la sua rilevanza e credibilità internazionale ma anche un legame importante con il mercato continentale (il 47% dell’export britannico si dirige verso gli Stati europei e da questi arriva il 50% degli investimenti diretti esteri) e l’opportunità di cooperare su questioni globali (criminalità, cambiamento climatico, difesa e migrazioni). Diversamente, un ruolo più attivo e intraprendente all’interno di una UE riformata permetterebbe al Regno Unito di tutelare il suo storico potere politico ed economico nel nuovo contesto globale.

E l’opinione pubblica cosa ne pensa? A quasi quarant’anni dall’ingresso nell’UE i sudditi di sua Maestà non hanno ancora sposato del tutto la causa dell’Europa unita né ci sono stati miglioramenti sul fronte della generale mancanza di interesse e conoscenza in merito alle questioni europee . Secondo il sondaggio “The Chatam House-YouGov 2012”, oggi il 31% degli elettori inglesi vorrebbe che l’UE tornasse una semplice area di libero scambio e il 26% sarebbe favorevole al completo ritiro del Regno Unito, contro il 16% che manterrebbe la situazione attuale e solo l’8% che sosterrebbe l’adesione all’unione monetaria; un non marginale 15% dell’elettorato, invece, non si è formato alcuna opinione sul futuro dell’Europa. Tuttavia, è interessante e positivo il “gap generazionale” che distingue i cittadini britannici più giovani (18-34 anni), aperti all’integrazione del Vecchio continente, dagli over-55, tradizionalmente più ostili.

Proprio in questi giorni David Cameron ha dichiarato che ogni scenario sarebbe “immaginabile” per la Gran Bretagna qualora i rapporti con l’UE non fossero più soddisfacenti; tuttavia, ha precisato il Primo Ministro, la scelta preferibile rimane quella di “restare nell’Unione Europea, far parte del mercato unico e massimizzare il nostro impatto”. In fin dei conti, la tormentata partecipazione del Regno Unito all’UE si è sempre basata sulla valutazione contingente dei costi (perdita di sovranità nazionale, burocrazia, saldi netti) e dei benefici (mercato unico, libera circolazione, peso politico internazionale, stabilità) connessi, in linea con la tradizione pragmatica inglese e in mancanza della spinta ideologica originaria dei padri fondatori.

Presumibilmente anche in futuro questo criterio continuerà a guidare la classe dirigente britannica a proposito dell’eterno dilemma: chiamarsi definitivamente fuori dal processo di integrazione europea oppure optare per un nuovo tipo di membership?

* Federica Castellana è Dottoressa in in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Studi Europei (Università di Bari)


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