Magazine Diario personale

Estate che mai dimenticheremo

Creato il 26 aprile 2013 da Povna @povna

Per il venerdì del libro di questa settimana la ‘povna ha deciso di legare la lettura, la scuola e l’educazione civica, continuando sulla linea della politica reale, quella che lega tutti, che ha ricordato per il 25 aprile.
Lo fa proponendo all’attenzione di chi ha voglia un racconto integrale, che riporta qui sotto. Si tratta di Estate che mai dimenticheremo, di Marcello Venturi, scrittore e partigiano di origine pistoiese, morto nel 2008. Famoso anche per aver pubblicato, nel 1963, Bandiera bianca a Cefalonia, un romanzo che ha il merito di riportate all’attenzione uno dei primi episodi di resistenza militare dopo l’8 settembre, del quale si celebrano oggi i settanta anni: da parte della Divisione Acqui, che si rifiutò di deporre le armi, combattendo contro i tedeschi fino allo stremo delle forze – per essere uccisa poi infine dai nazisti, per rappresaglia, nonostante la resa incondizionata, che avrebbe dovuto garantire la condizione di “prigionieri di guerra”, ai sensi della Convenzione di Ginevra.
Nella narrativa breve Venturi si concentra invece sul tema della Resistenza, e sui fatti avvenuti nell’estate del 1944, quando la dorsale dell’Appennino pistoiese era diventata barriera naturale della cosiddetta linea gotica (il confine che separava l’Italia già libera da quella sotto il controllo della Repubblica Sociale Italiana, con capitale Salò, rifondata da Mussolini e dai fascisti) e dell’esercito nazista – i luoghi – e qui si può leggere un bel libro di ricerca storica – segnati dalle stragi di civili che sono diventati cicatrici purtroppo mai sanate di quegli anni: da S. Anna di Stazzema al Monte Sole.
Il racconto in questione fa parte di questo filone, e propone la vicenda di un contadino alle prese con l’incontro con un soldato tedesco (i partigiani dalla narrazione sono in questo caso assenti). La prosa è immediata, quasi a imitare il parlato di un racconto orale che ha per destinatario la comunità tutta. Una comunità colpita e consapevole, che ricorda, a guerra finita, gli episodi cruciali che hanno segnato per sempre il loro rapporto con i luoghi e con la storia. Proprio per questo la narrazione è insieme individuale e collettiva, indulge su un “noi” che si fa consapevolezza di unità di intenti, a coinvolgere, man mano che la storia di dipana con necessaria suspence, anche il lettore. Pubblicato per la prima volta nel 1946, sulla rivista letteraria di Elio Vittorini (“Il Politecnico”), il racconto è stato inserito nella raccolta Racconti della Resistenza, pubblicati (per i sessanta anni dalla guerra civile) nel 2008 – un libro che vale la pena di cercare e di leggere tutto, grazie alla scelta originale e intelligente (unita alla raffinatezza critica delle note di spiegazione ai testi) operata dal curatore Gabriele Pedullà.

Estate che mai dimenticheremo
«Questo, tuo bambino?» chiese il soldato facendo un cenno con la mano.
«Sì», disse il contadino.
«E quella, tua moglie?» il tedesco chiese.
«Sì», disse il contadino. Era d’estate.
«Io piacere molto bambino», disse il soldato. Il sole bruciava il grano nei campi, e gli alberi dei boschi; bruciava le case solitarie delle montagne pistoiesi.
«Un’estate di questo genere mai vista in vita mia», dicevano i vecchi.
«Io avere casa molti bambini», disse il soldato. E teneva in mano una camera d’aria della sua macchina. Strusciava la gomma con un pezzo di carta vetrata. Aveva la fronte bagnata di sudore. Il caldo di quell’estate del ’44.
«Avere signora, casa», disse il soldato. E scoprì i denti con un sorriso.
«Cristo, – pensò il contadino, – non sono uomini come tutti gli altri, questi qui, no». Pensò: «Anche se ride è in un’altra maniera».
«A me piace i bambini», disse il soldato continuando a lavorare sulla sua camera d’aria. Era arrivato nell’aia e si era messo a sedere sotto il fico. Aveva chiesto un secchio d’acqua. E il contadino gli aveva portato l’acqua, poi si era fermato sulla porta. E dietro a lui la donna col bambino in braccio, per guardare il soldato che strusciava la sua camera d’aria con la carta vetrata.
Ed era estate. Un’estate calda come mai prima di allora. L’estate del ’44 che non potremo più dimenticare. Le zolle dei campi erano secche e screpolate come per la febbre, e le cicale sugli alberi sembravano impazzite. I grilli cantavano anche di giorno, per la sete. Perché era un’estate calda e rossa che sembrava insanguinata.
«Presto io Germania», – disse il soldato. – Tutto kaputt e io Germania».
«Kaputt», pensò il contadino. E alla moglie disse:
«Tu vai in casa».
Passavano lunghe colonne di camion, in quei giorni, sulla statale che porta a Modena. E ogni tanto uno di quei camion si fermava, tedeschi biondi venivano a chiedere se c’erano uova o latte o altro da mangiare.
«Nulla», diceva il contadino. E indicava il piccolo tra le braccia della sua donna.
I tedeschi camminavano per l’aia e parlavano tra di loro, con voci metalliche. Avevano nastri di cartucce che portavano con piacere, come una donna può portare ricami quando si reca a una festa.
«Americani sull’Arno», disse il tedesco. E si asciugava il sudore della fronte. «Presto tutto finito, kaputt», soggiunse.
Ora spalmava il mastice sulla gomma grigia della camera d’aria, mentre il contadino, fermo sull’uscio, lo stava a guardare.
E il sole batteva forte con i suoi raggi sopra i campi di grano, e il grano non era giallo, ma rosso, in quella rossa estate del ’44. Gli abeti dei boschi prendevano fuoco, e i villaggi sparsi per le montagne anche. Scendevano giù, alla pianura, uomini e donne con tutte le loro case addosso. Case racchiuse dentro un fagotto nero che pendeva da un bastone.
«Tornare Germania, io, – disse il tedesco di sotto al fico. – Guerra niente buono».
Pensate: uomini e donne scendevano giù, incontro agli americani; e sulle spalle, attaccate a un bastone, portavano le loro case, la loro mobilia, e i loro morti. E non era stato il sole a far questo. Ma i lanciafiamme dei guastatori tedeschi. E il contadino che dalla porta guardava il tedesco accomodare la sua camera d’aria, aspettava da un giorno all’altro che le cavallette arrivassero anche sui suoi campi, a devastarli; e sulla sua casa, a ridurla in macerie.
«Perché è come la grandine», dicevano i vecchi guardando in terra. E aggiungevano: «Non si era mai vista un’estate come questa».
Il tedesco alzò la testa e guardando il contadino sorrise. Disse:
«Gomma kaputt. Ora niente kaputt. Tutto pronto, – disse. – Io andare».
Il contadino scosse la testa come per dire di sì.
«Ma, – disse il tedesco, – molto caldo. Io andare quando notte. Capito? – chiese. – E molta fame», aggiunse. Rise rumorosamente. Posò la camera d’aria sull’erba, sotto il fico. Tuffò le mani nel secchio. Poi si asciugò le mani a uno straccio che era sotto il sedile della macchina. E andò piano verso il contadino. Sudava. Dalla sua fronte piccole gocce bianche scendevano giù, lungo le guance; e alcune gli arrivavano fino al collo. Si passò una mano sulla fronte.
«Caldo, – disse. – Aspettare notte, quando sole dormire».
Amici, noi non possiamo dimenticare quell’estate del ’44. E il fagotto che pendeva dal bastone. Dentro quel fagotto c’era una casa, un letto, una tomba di camposanto. E gli abeti erano i nostri abeti. Il grano era il nostro grano. Gli uomini che spenzolavano, col collo allungato, dal ramo di un albero, erano i nostri fratelli. Pensiamo, amici, a quanti padri ci sono stati uccisi. A quante volte, noi superstiti, siamo stati uccisi.
«Tu avere uova, avere latte?» chiese il tedesco fermandosi davanti al contadino. Il contadino si guardò i piedi scalzi, la miseria dei suoi pantaloni.
«Non ho nulla», rispose.
«Nulla?» chiese il tedesco. Non sorrideva, ora; aveva il viso scuro e duro come la pietra.
«Italiani sempre nulla», disse.
Il contadino allargò le braccia, cercò di spiegare:
«La vacca, vennero i tuoi camerati e me l’hanno portata via. Io dissi ai tuoi camerati che avevo un bambino. Tu visto, il mio bambino, vero? Dissi ai tuoi camerati: se voi mi prendete la vacca questo innocente muore di fame. Ma loro dissero: noi guerra, noi difendiamo la vostra terra, e voi ci date da mangiare. Questo mi dissero».
«Io niente capire», disse il tedesco.
«Tu niente capire, – il contadino disse. – Ma io lo so cosa voglio dire. Voglio dire che non ho nulla. Voglio dire che ho gli occhi per piangere. Questi sì che ce l’ho. Ma non il latte».
«Niente latte?» chiede il tedesco. Sudava. Tutta la sua fronte, il suo viso, il suo collo, tutto era umido di sudore. Di quel sudore che colava nell’estate del ’44. E il contadino aveva la gola secca, mentre guardava i campi in malora. Teneva gli occhi sui campi per non incontrare lo sguardo freddo e azzurro del tedesco che gli stava piantato davanti.
«Allora, – disse il tedesco, – tu uova?».
Il contadino fece un gesto per indicare in tutta la sua ampiezza l’aia bianca, che abbagliava sotto il sole.
«I tuoi camerati, – cercò di spiegare, – quelli della vacca, mi portarono via anche le galline. Ne avevo sette. E mentre io parlavo col tenente, per via della vacca, gli altri presero tutte le galline che erano sull’aia. Quando me ne avvidi corsi dietro al tenente e gli dissi: Gesù benedetto, ma qui come faccio, allora? Che cosa darò da mangiare al mio bambino?Ma il tenente disse: Niente capire».
«Fino a che si accontentano di questo», dicevano i vecchi guardando in terra.
Ora la gomma riparata era sotto il fico, dall’altra parte dell’aia. La macchina avrebbe potuto ripartire. Ma il tedesco stava davanti al contadino. E alla vita aveva la solita grossa cintura di cuoio. E appesa alla cintura, dentro la fondina di pelle, la lunga pistola automatica che il contadino aveva visto molte altre volte. I suoi occhi si posarono lì.
«Pane, – disse il contadino. – Di quelle te ne posso dare. Mi è avanzato un po’ di farina siccome». Aggiunse: «Se fosse stato per le macchine, quest’anno non si mangiava, perché non sono venute fuori a battere. Pane posso dartene».
«Pane», disse il tedesco.
«Sì, – disse il contadino. – Pane. E anche fichi e pesche. Posso dartene».
«Io voglio entrare, – disse il tedesco. – Qui molto caldo».
«Sotto il fico, – il contadino disse, – ci starai meglio che in casa».
«No, – disse il tedesco, spingendolo da parte. – Io voglio entrare».
Quanti tedeschi sono entrati nelle nostre case, in quell’estate del ’44?
Il contadino lo seguì, noi li abbiamo seguiti, e siamo stati a guardarli mentre camminavano per le nostre stanze.
«Tu vai su», disse il contadino alla moglie. La donna teneva tra le sue braccia il bambino e sorrise, da dietro la testa del bambino.
Era un sorriso da estate del ’44, non un vero e proprio sorriso.
«Perché? – chiese il tedesco, vedendo che la donna si accingeva, a salire le scale. – Paura?» chiede. Disse, per farla restare: «Io avere bambini, Germania. E signora. Niente paura, tu».
La donna cercò con lo sguardo il marito, senza saper che fare; e rimase lì, col bambino in braccio, a piè delle scale.
C’era un tavolo, nella stanza. C’erano alcune sedie. Il tedesco si sedette e trasse fuori di tasca una pezzola. Si asciugò il sudore che gli scendeva sulle guance.
«Voglio pane, – disse come per rassicurare la donna. – E fichi». Poi domandò: «Quanti anni?». Indicava il bambino.
«Tre», disse la donna, ferma sulle scale. Non sapeva se salire o rimanere.
Il contadino si era appoggiato alla parete, le mani in tasca, e guardava davanti a sé.
«Piccolo», – il tedesco disse. – E tu?».
La donna cercò con lo sguardo il marito.
«Quanti anni, tu?» chiese il tedesco.
«Venticinque», la donna rispose. E implorò con gli occhi il marito. Non sapeva se andare in camera o restare come il tedesco le aveva detto. Aveva le lacrime agli occhi, e cercava di nasconderle dietro la testa del bambino.
«Bella signora, tu, – disse il tedesco. – Tu, niente paura. Io stare qui perché caldo con la macchina. Aspettare notte, – disse. – Ora soffocare».
Si soffocava in quell’estate del ’44. Il sole e i guastatori tedeschi ci toglievano il respiro. Gli alberi prendevano fuoco. I nostri abeti, E gli uomini e le donne scendevano a valle, saltando come percore. Soltanto che non erano pecore, ma uomini e donne; con la sua casa, ciascuno, dentro un fagotto appeso a un bastone.
Il tedesco accese una sigaretta. «Anch’io, – disse, – avere signora. Molto bella, mia signora. Ma tu, più bella», disse.
La donna teneva il volto dietro la testina del suo ragazzo, per non farsi vedere le lacrime. Il cuore le batteva forte, per la paura. Un nodo le stringeva la gola.
«E il pane?» disse il tedesco rivolto al contadino.
Il contadino si mosse, lentamente si recò alla madia; aperse la madia e ne tirò fuori un pane. Un coltello, prese. E posò pane e coltello sul tavolo, davanti al tedesco.
Il contadino tornò ad appoggiarsi alla parete, le mani in tasca; guardò davanti a sé con occhi vuoti. La sua donna era ancora alle scale, che si asciugava le lacrime alla testina del bambino.
Il tedesco si tagliò una fetta del nostro pane. «Tu avere detto fichi, – disse. –Io volere fichi».
«Là», disse il contadino, indicando col braccio fuori dalla porta.
«Tu portare fichi», disse il tedesco.
Ma il contadino rimaneva appoggiato alla parete. Fu la donna che si allontanò dalle scale e fece alcuni passi nella stanza, per andare a cogliere i fichi.
«Vado io», disse.
Il tedesco si alzò dalla sedia e la fermò.
«Lui», disse, indicando il marito.
Il contadino si mosse, guardò dalla porta l’estate, la camera d’aria sotto il fico, poi si voltò per guardare la moglie. Questa lo vide, da dietro la testa del suo bambino. E lo vide uscire nel sole dell’aia bianca. Il cuore le batteva dentro la gola.
«Caldo», disse il tedesco alla donna. Andò alla porta a passi lenti, la chiuse.
«Che nome?» chiese alla donna.
La donna non capì. Sentì soltanto che una mano le era entrato tra il petto e il suo bambino.
«Apri, – gridò di dietro la porta, il contadino. – Apri, tedesco. Non uscirai vivo».
La donna vide il tedesco tirar fuori la pistola automatica e asciugarsi la fronte. Lo vide che si avanzava la porta, l’arma nel pugno. Chiuse gli occhi.
E fu l’estate del ’44. Era quell’estate. E quel contadino ero, eri tu, in pugno un fucile tirato fuori dal fienile. Fu l’estate che non potremo mai dimenticare. Non la dimenticheremo. È stato allora che abbiamo imparato anche noi a sparare.

(Marcello Venturi, 1946)


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