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Estati calabresi d’un tempo (questi posti davanti al mare...)

Da Giuseppe7405

Per anni ho passato le estati con i nonni; perché il papà lavorava qui al nord fino a luglio (e soprattutto, si prendeva un mese di libertà da me e mia sorella) e perché i nostri nonni abitavano a Reggio Calabria, dunque vicino al mare... ai tempi non sempre me ne accorgevo, ma era una fortuna. Anche perché eravamo circondati da zii e cugini affettuosi. Dopo almeno 20 anni dalla fine di quelle estati, ogni tanto cero di recuperare i ricordi. I nonni non ci sono più, nemmeno il papà, e dunque il vuoto è abbastanza grande... Una serata tra amici, qualche settimana fa, ha avuto come argomento di discussione, tra gli altri, la forza dei ricordi olfattivi. E ci siamo trovati d'accordo sulla loro importanza. Qualche giorno più tardi, casualmente, ho sentito un odore particolarissimo, che avevo dimenticato, ma che mi ha ricordato, come una vampata nella mente, quelle estati calabresi. E così mi è venuta in mente questa poesia..
Il legno verde, avvelenato, della “spiraletta”,
non smetteva di bruciare:
la zanzare però ballavano ugualmente, non morivano
nella notte carica d’umidità e di calore.
Le automobili passavano rade, i locomotori fischiavano,
la stazione era lontana, i binari infiniti,
gli autobus troppo sporchi e pericolosi,
per scappare, da soli, lontano.
Ma poi la mattina tornava l’estate dei bambini:
il vociare degli ambulanti al mercato, la frutta fresca:
u’ muluni, ‘na persica, a cricopa, i purtualli troppu cari…
La festa delle borse della spesa, il pranzo al sole,
il sudore che non finiva mai, e poi
quella malinconia pomeridiana
che il nonno non sapeva capire.
E più tardi la panna, la brioche, la granita,
sul corso gremito di gambe abbronzate:
senza nessuna tristezza né decenza,
il bar era aperto alle scarpe e alle ciabatte dei turisti.
Tutti toccavano tutto e tutti:
le paste, le vetrine, i tovaglioli,
il culo dell’emigrante tedesca,
le borse e gli occhiali degli altri.
Poi viene tardi, è sera senza essere ancora buio, ma il nonno ha fame:
alla finestra brontola in dialetto, poi sorride.
Ecco il pomodoro, il pane, il vento del tramonto,
il profumo del mare che gareggia, in bellezza,
col fischio delle locomotive,
ma il telegiornale non aspetta nessuno.
D’estate i pensieri foschi morivano presto:
distraeva il profumo dei pomodori che si seccavano in terrazza,
e da lì il profilo della Sicilia colorato d’azzurro,
qualche volta l’Etna fumante…
E l’allegria agostana non finiva quasi mai:
le melanzane ballavano, tagliate nella salamoia,
la conserva di pomodoro per l’inverno nel pentolone,
il latte di mandorla alla menta,
la provola mangiata per forza.
Poi settembre arrivava a falciare l’estate:
alla fine, l’Italia rimaneva sempre troppo lunga,
il treno del ritorno una specie di prigione,
estranei gli amici lombardi ritrovati, al ritorno…

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