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Creato il 03 giugno 2021 da Indian

Lezioni condivise 109 – Bergson e Ungaretti.

29 febbraio 2016 @ 22:54

Ungaretti conobbe il filosofo Henri Bergson a Parigi nel 1912. Ne frequentò per due anni le lezioni al Collège de France e alla Sorbona. Arrivò in Francia direttamente dall’Egitto – ove era nato – attraversando per la prima volta l’Italia e le montagne lucchesi – sua terra d’origine – che vedeva per la prima volta. Si trattava di un Ungaretti giovane, non ancora compromesso né col fascismo, né dalle guerre e dalle vicende biografiche che ne caratterizzarono l’attività letteraria. In Egitto aveva frequentato le scuole superiori e compiuto le prime esperienze formative, con la lettura di poeti francesi (Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé…) e l’esperienza di Baracca Rossa (ritrovo di socialisti e anarchici) con l’amico Mohammed Sceab.

Henri-Louis Bergson (1859-1941), di famiglia ebraica, a quel tempo era già un filosofo affermato, si poneva fuori dalla tradizione spiritualista e positivista che caratterizzava il suo tempo ed era attento ai fenomeni psicologici e biologici applicati alla letteratura. Per i suoi testi ebbe il premio Nobel per la letteratura nel 1927, non essendovene allora uno per la filosofia.

Negli anni in cui Ungaretti approdò in Francia per gli studi universitari, Bergson stava ottenendo l’attenzione da parte di ambienti socialisti e modernisti cattolici, mentre la chiesa nel 1914 poneva all’Indice i suoi libri. L’iniziale approccio ungarettiano a Bergson avveniva quando si andava in giro con il Saggio sui dati immediati della coscienza, ripreso dal movimento futurista non ancora contaminato dallo squadrismo fascista.

Per Bergson la filosofia può ispirare gli artisti, ma non dar luogo a una teoria estetica. Per questo non ne ebbe una, salvo opinioni sull’estetica del tempo e il suo pensiero sull’arte. Esso risentiva del vitalismo, cioè della vita intesa come forza vitale energetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto biologico materiale, e insieme del dibattito sulla psicologia della creazione che si ebbe a cavallo dei due secoli, benché non la condividesse, anzi ne ribaltasse le conclusioni in senso misticista e metafisico, nel lavoro Matière et mémoire (1896).

Egli si rivelava intuizionista, spiritualista, soggettivistico-sentimentale, sostanzialmente giansenista – predestinazione del bene e del male -; percepiva l’arte in senso emotivo e non scientifico, come bellezza vivente, anima naturale, interiore, che investe la coscienza e non la tecnica, una visione come di una metafisica figurata, tuttavia concreta, vitale, nell’ambito della ragione individuale, della riflessione personale: una filosofia rappresentata. La bellezza che esprime il soggetto artistico è la forma mediata dalla grazia. Questa, con la natura e la felicità, è la condizione che l’arte consente di osservare, di rendere visibile e gradevole. In questo senso l’arte non contempla analisi troppo concettuali, empiriche. Nel libro descrive il rapporto tra immagine percepibile e realizzata attraverso la sensazione della memoria, il sogno, la fantasia, la poesia, un’espressione non di un’esigenza, ma di una potenza creativa.

La prima guerra mondiale fu vista da Bergson come scontro tra spirito e materia, o tra vita (Francia) e meccanicità (Germania), spostando la sua filosofia dalla parte del nazionalismo, ricevendo diverse critiche di colleghi francesi. Sostiene Bergson “La materia è necessità, la coscienza è libertà; ma nonostante si oppongano l’una all’altra, la vita trova modo di riconciliarle. Infatti la vita è proprio la libertà che si inserisce nella necessità e la volge a suo profitto” (H. Bergson, L’Énergie spirituelle, 1919). Ritenendo essere per un’intelligenza aperta, agile, più aderente alla vita e al dettato di quell’intuizione cui il bergsonismo stesso non ha mai obiettato nulla. L’homo sapiens e l’homo faber, coesistono.

Il tempo in Bergson (Histoire de l’idée de temps, 1902) concilia pensiero e irrazionalità, intuizione e intelletto. Intende fermarlo nella visione di un istante, l’attimo fuggente, il ritmo, il tempo vitale assunto come flusso della coscienza presente.

Ne l’Evoluzione creatrice (1907) Bergson definisce l’arte come intuizione del flusso cosciente (mentre accade, come in Joyce, adattato alla coscienza) originario della vita, come privilegio che consente di vedere meglio la realtà permettendoci di percepire ciò che essa nasconde, senza simboli in quanto essi ne rappresentano un velo, ristretto nel concetto di “durata pura”, nella logica della successione sensoriale e dell’utilità contingente, e che contiene un’unità sostanziale di passato e presente nel fluire ininterrotto della coscienza, durata reale della psiche individuale, dunque durata soggettiva, relativa, legata a stati d’animo simultanei, spontanei (tempo realizzato).

Ungaretti scrisse degli articoli sul filosofo, tra cui L’estetica di Bergson, in “Lo spettatore italiano” (1924), ove tratta dell’analisi della coscienza dell’uomo, del concetto di tempo “spazializzato”, raffigurabile graficamente nello spazio in istanti che lo precedono e lo seguono, si succedono, senza presente, reso possibile dal precedente, ma annullato dall’istante successivo: un tempo astratto, finto. Come per sant’Agostino, il tempo esiste solo nell’interiorità della coscienza. Ungaretti, al contrario vede gli istanti esistere uno in funzione dell’altro, come un fluire continuo, come una melodia. I fatti coesistono nello spazio (un mobile, un cane, una macchina…). Il fluire è possibile solo nella nostra coscienza. Bergson lo spiega con l’orologio. Esso non misura il tempo, ma segue lo spostamento delle lancette di punto in punto, di momento in momento. In realtà si misura il movimento di un elemento fisico. Come lo spostamento di un mobile che non è misurabile temporalmente, ma solo spazialmente. Il tempo in sé non esiste come durata.

Ungaretti (al contrario) indica una serie di momenti nella nostra memoria che individuano la nostra esistenza; da vecchi si può ripercorrere tutta la vita interiore, lo si può fare, ricostruire al meglio se stessi. Sarebbe il mito dell’eterno ritorno (coro 9 ne Ultimi cori per la terra promessa, raccolta “Taccuino del vecchio”), ripercorrere il vissuto con la memoria (La ginestra di Leopardi). Lo sforzo da compiere è proporre ciò che si verifica nel mutamento. Cogliere il tempo istante per istante.

È sempre pieno di promesse il nascere
sebbene sia straziante
e l’esperienza di ogni giorno insegni
che nel legarsi, sciogliersi e durare
non sono i giorni se non vago fumo.

Un altro aspetto di cui si occupò Bergson è quello del linguaggio. Un iniziale approccio lo ebbe ne Il riso (1899), ove censura la commedia, opponendo il carattere “comico” (qualcosa di alienante che ci allontana dalla realtà) a quello drammatico. Qui egli distingue tra la comicità espressa dal linguaggio e la comicità creata dal linguaggio. La prima è traducibile da una lingua all’altra, la seconda no, perché è prodotta dalla struttura della frase o dalla scelta delle parole e non da una situazione tra persone umane.

La lingua si arricchisce tramite i parlanti e chi scrive. Attraverso i secoli, si notano le mutazioni. Ungaretti parla di lingua d’uso (dialetto) soggetta a contaminazione e lingua letteraria. Il linguaggio è l’unico strumento che ha l’uomo per esprimere il proprio pensiero. Se questo è inadeguato bisogna ricorrere a strumenti adatti, renderlo capace di farlo. Bergson riteneva che se il linguaggio non mutasse fermerebbe l’uomo. Ungaretti sosteneva che bisognasse mutare il linguaggio, si considerava poeta della parola, ma essendo la sua dicotomia tra lingua e silenzio era anche “poeta dell’oblio” (Petrarca). A volte il dramma dei filosofi sono i loro seguaci, coloro che appiattiscono il loro pensiero alla propria convenienza. E’ stata anche la sorte dell’ebreo polacco Bereksohn, il cui padre fu costretto a cambiare nome e naturalizzarsi francese.

Il Nostro dopo l’ottenimento del premio Nobel elaborò la teoria che contrapponeva la società chiusa e statica basata su obbedienza e dogmi, alla società aperta in continua evoluzione anche sotto un dinamismo religioso che coinvolge l’intera umanità; anche se questa condizione non fosse raggiungibile deve restare come orientamento finale. Si riteneva tendenzialmente cattolico, ma non aderì ufficialmente per solidarietà con gli ebrei perseguitati in Germania.

Vi è nella filosofia bergsoniana una nostalgia, mai espressamente dichiarata, del tempo trascorso e un anelito all’avvenire inteso come prospettiva entro la quale tendere (sperare) a realizzare la propria libertà e quella dell’universo, giacché la libertà individuale non è libertà. La sua filosofia pone allora in una continuità indissolubile il passato e l’avvenire, tempo e libertà.

Il punto di vista storico resta sicuramente insostituibile nell’analizzare il lavoro di un artista. Non si dà dunque identità al di fuori della storia, al di fuori di ciò che può essere nominato e in quanto tale tramandato quale attestazione di un vissuto riconoscibile. “Senza la tradizione (che opera una scelta e assegna un nome, tramanda e conserva, indica dove siano i tesori e quale ne sia il valore) il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà, e quindi, in termini umani, non c’è più né passato né futuro, ma soltanto la sempiterna evoluzione del mondo e il ciclo biologico delle creature viventi” (Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 27).

(Letteratura moderna e contemporanea – 9.5.1997) MP

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Commenti (1) 

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1 #
   rachel
https://www.reddit.com/r/RachelCook
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45.72.35.118
Inviato il 02/04/2016 alle 22:53
Hello, it’s even easier …


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