Estetica dello spazio e del dettaglio filmico: Jean-Pierre Jeunet e Wes Anderson
Parte teorica
-Titolo- Il titolo della tesi, Estetica dello spazio e del dettaglio filmico: Jean-Pierre Jeunet e Wes Anderson, evidenzia in maniera chiara come il percorso intrapreso sia un tracciato che metta in risalto lo scaturire di determinate sensazioni nello spettatore nel corso della fruizione cinematografica. Sensazioni, queste, che nascono anche da aspetti filmici meno considerati, quali i dettaglio e gli spazi nei quali sono inseriti. In tale ottica, dunque, un argomento come il “dettaglio filmico” acquista nuova importanza in rapporto al soggetto che fruisce il film e allo “spazio cinematografico” che lo contiene. Una relazione che, seppur presente in ogni pellicola, risulta in maggior modo chiara ed esplicita nelle filmografie dei registi contemporanei Jean-Pierre Jeunet e Wes Anderson.
-Dettaglio filmico-
La relazione che il cinema intrattiene
con il “dettaglio”, non è esclusivamente circoscritta alla concezione più nota
che lo limiterebbe a una semplice scelta delle inquadrature da parte del
regista o di un suo collaboratore. Il “dettaglio filmico”, infatti, non emerge
solo quando viene inquadrato in primo o in primissimo piano, sia che si tratti
di un volto o di un oggetto, ma anche nei momenti in cui vengono coinvolti elementi
contingenti, per esempio, o aspetti in secondo piano, di contorno, lontano
dalle luci della ribalta. Il “dettaglio filmico”, da questo punto di vista, può
essere suddiviso in “dettaglio fortuito” e “dettaglio voluto”. Il primo tipo è
un particolare che compare nell’esperienza filmica senza essere programmato dal
regista; come nel caso della mosca sul volto di Renée Falconetti nella
pellicola di Dreyer La passion de Jeanne
d’Arc, secondo l’analisi di Massimo Carbone, esso è in grado di comparire
nella pellicola senza essere desiderato, ma allo stesso tempo senza essere
casuale; si tratta infatti della necessaria presenza del contingente nel farsi
di un’opera d’arte, legando la finzione al reale e viceversa. Il secondo
invece, vale a dire il “dettaglio voluto”, è quello più noto e si tratta di un
particolare richiesto per la realizzazione dell’opera cinematografica.
Nonostante esso non emerga solo se inquadrato in primo piano, è sotto questo
aspetto che il dettaglio ha avuto la sua notorietà storica. Da questo punto di
vista, Pascal Bonitzer sottolinea la differenza del primo piano nel cinema
americano, che veniva utilizzato per inquadrare la star, far nascere l’identificazione nei personaggi principali e
“sentire” le loro emozioni, da quello sovietico rivolto a mostrare “l’emozione”. Da un altro
punto di vista, Gilles Deleuze sottolinea come il primo piano non sia solo limitato
al volto (come nel caso, per esempio, di Giovanna d’Arco nell’opera di Dreyer),
ma sia anche utilizzato, ad esempio, per gli oggetti, evidenziandone così la
capacità emozionale. Come i volti umani, essi, se inquadrati in maniera d’astrarli
dal rapporto spazio e dal tempo in cui si situano, sono portatori d’“emozioni”.
-Spazio cinematografico- È evidente, però, che un “dettaglio filmico” così inteso, non possa prescindere dal rapporto che intrattiene con lo spazio cinematografico, luogo nel quale s’inserisce. Lo spazio della finzione in generale, che riguarda il mondo artistico, è limitato da una qualsivoglia “cornice” (effettiva o meno) come anche emerge dagli studi di Ortega y Gasset o Georg Simmel, che separa in qualche modo i due spazi: reale e fittizio. Lo spazio cinematografico è distinto dallo spazio oggettivo nel quale, fra gli altri, è inserito lo spettatore. Il luogo della finzione della settima arte, infatti, non solo non è da considerare come il reale noto nella quotidianità, ma non deve neanche essere rilegato alla funzione di rappresentazione del reale. Esso, infatti, è ‘come se’ fosse la realtà, perché ha in essa le basi, ma, non appena il regista la riprende con la macchina da presa, diviene qualcosa d’altro: un’immagine del reale o, per dirla con Jean Mirty, una trans-formazione dello spazio. Di nuovo, un’immagine della realtà molto vicina ad essa, ma allo stesso tempo distante. Stando alla suddivisione di Eric Rohmer e per il fatto che un film ha comunque delle basi di realtà, lo “spazio cinematografico” si suddivide in: “spazio architettonico”, che ha a che vedere con il profilmico naturale o artificiale, con quella parte di realtà che può essere costruita ad hoc o che esiste in quanto tale; “spazio pittorico”, ossia quegli aspetti che riguardano il colore, la luce, lo stile dell’immagine in sé; “spazio filmico”, i movimenti di macchina e le inquadrature, ossia ciò che per Deleuze rende il cinema un insieme d’immagini-movimento.
Al cinema, come a teatro, lo spettatore vede un essere umano che interpreta
qualcosa d’altro, non sé stesso ma un altro; vede anche una scenografia che ha
il compito di essere qualcosa di reale. Non si tratta di una semplice finzione,
qualcosa di “ontologicamente inferiore” alla realtà che lo spettatore ritrova all’uscita
dalla sala cinematografica o dal teatro, come sostiene Claudio Rozzoni. Con ciò
non si vuole appiattire le due realtà una sull’altra. Lo “spazio filmico” e lo
spazio teatrale non sono un appiattimento del reale oggettivo, non sono solo
una sua rappresentazione. Lo “spazio cinematografico” è un’altra realtà, una
realtà trans-formata per dirla con Jean Mitry; la finzione teatrale è una nuova
“verità”. Questa “irrealtà” altro non è che un’immagine (Bild). Ciò che vediamo sulla scena o al cinema è un’immagine della
realtà, un’“irrealtà” reale, come sottolineano i filosofi legati all’arte
teatrale Eugen Fink e Ortega y Gasset. L’immagine irreale della realtà non è,
però, separata dal reale; essa è legata inscindibilmente al suo “portatore”: è
il corpo dell’attrice che “porta” l’immagine del personaggio; è la tela che
“porta” il Bild delle colline
all’orizzonte, per esempio; sono le pareti del set che “portano” l’immagine del cielo in The Truman Show. Truman non vede il “portatore” finché, per
l’appunto, non lo “scopre”. Senza il set
non si può dare il cielo toccato dall’imbarcazione, senza il reale non si può
dare l’“irreale”.
In maniera meno evidente del teatro,
poiché molto più mediato e “filtrato”, la narrazione filmica mostra lo spazio e
il tempo che li sono propri solo se si “presenta” come Bild nel qui e ora della fruizione. Il reale mostrato al cinema non
può essere il mondo oggettivo, perché la Parigi di Amélie è sempre tale ogni
volta che si presenta allo spettatore. I possibili legami fra i due mondi vanno
considerati sotto questa ottica: essi nascono ogni volta che l’immagine filmica
si “presenta” nel momento della proiezione cinematografica. L’immagine filmica
non è posta frontalmente agli astanti come se fosse una cosa di tutt’altra
natura; essa prende in sé lo spettatore intento a guardarla. Dalla finestra
escono due mani verso la sala che afferrano il pubblico, non per annullarlo
nella finzione, ma per condividerla. Amélie guarda in macchina non solo per
coinvolgere lo spettatore, ma anche per far partecipare a entrambi del medesimo
spazio. L’immagine filmica s’inserisce nel reale aprendosi e questa entra in
essa grazie alla sua apertura. Questo dialogo, nelle opere di Jeunet e
Anderson, non implica mai l’annullamento dell’uno nell’altro inconsapevolmente,
ma un perenne rientrare e riuscire dai due mondi. Non è possibile pensare il
mondo teatrale, quello cinematografico e quello reale come delle realtà isolate
e isolabili. Chi più e chi meno, ma ogni esperienza artistica non può
prescindere dallo “spazio reale” che la circonda, così come il mondo oggettivo
non può non essere aperto a queste trans-formazioni. L’esperienza filmica, così
come le altre arti, non può pensare di rinchiudersi su se stessa, perché già
per natura essa è da considerarsi aperta nel reale.
Parte filmica
-Spazio cinematografico-
Il “dettaglio” e lo “spazio filmico”
sono, dunque, un altro modo di mostrare allo spettatore la capacità che
l’immagine filmica ha di essere allo stesso tempo vicina e lontana dal mondo
oggettivo. Lo spettatore, nei film di Jeunet, per esempio, s’immerge e riemerge
continuamente da questa consapevolezza estetica. Lo “spazio cinematografico”, infatti,
nella sua filmografia non solo non rappresenta come tale il reale, ma in più di
un’occasione si distingue da esso. Per ciò che riguarda lo “spazio architettonico”,
gli edifici del regista transalpino in Delicatessen
e La cité des enfants perdus sono
strutture del profilmico (sia che si tratti di un edificio dismesso o di
un’intera città costruita in studi cinematografici) che assumono un senso
legato alla narrazione una volta ripresi dalla macchina da presa e inseriti in
un contesto filmico. Sempre Jeunet, inoltre, per l’aspetto relativo allo
“spazio pittorico”, non disdegna di modificare a suo piacimento la Parigi in Le fabuleux destin d’Amélie Poulain,
mostrando grazie alla computer
grafica una città quasi irreale e poetica. Lo “spazio filmico” in generale,
infine, può essere mostrato rigidamente allo spettatore come nel caso di Wes
Anderson, con inquadrature frontali, geometriche e ordinate (come la
presentazione dei personaggi in The Royal
Tenenbaums) o, nel caso di Jean-Pierre Jeunet, in maniera più fluida e
morbida, come se la macchina da presa fosse un essere vivente autonomo con un
suo particolare punto di vista, non riconducibile all’occhio di un essere
umano.
Per capire il ruolo dei set in Wes
Anderson, è necessario prendere in esame una sequenza tratta da uno dei suoi
film di culto The Life Aquatic with Steve
Zissou. In essa, viene presentata la nave dell’oceanografo Steve Zissou.
Wes Anderson taglia trasversalmente l’imbarcazione e un movimento di macchina
riprende frontalmente le varie cabine tagliate occupate dai membri
dell’equipaggio descritte dalla voce narrante dell’oceanografo. Il regista
texano utilizza l’evidenza della scenografia, per inserirla in maniera
originale nel risultato filmico. Lo “spazio architettonico” non viene nascosto,
il décor è evidente e come tale viene
inserito nel contesto della pellicola. Questo effetto non dà per scontata la scenografia e i
trucchi cinematografici, piuttosto vengono esplicitati all’interno dello spazio
filmico; essi permettono di creare, così utilizzati, nuove realtà. Anderson si
situa proprio sul confine sottile fra profilmico e filmico in cui il trucco di
una costruzione fittizia è visibile, ma non stride e non si oppone a ciò che in
fondo ogni pellicola vuole realizzare: una realtà trans-figurata che vuole
essere mostrata allo spettatore come tale.
La voce narrante
dell’oceanografo parla allo spettatore, coinvolgendolo, e al nuovo membro dell’equipaggio
perché sono la medesima persona. Il pubblico viene coinvolto anche nel momento
in cui vede la sezione trasversale della nave. Mostrare lo “spazio
architettonico” in questa maniera, permette di avvicinare l’al di qua all’al di
là dello schermo, creando un’altra possibilità di realtà filmica. Lo “spazio architettonico”
è in Wes Anderson, quella finestra che permette alla realtà filmica di
avvicinarsi alla realtà oggettiva e a questa, insieme allo spettatore, di
avvicinarsi alla prima. Ciò può avvenire anche grazie a un personaggio che per
un momento si stacca dalla narrazione e apre quella finestra che è lo “spazio
architettonico” (Moonrise Kingdom).
Su questa soglia, si creano altre possibili realtà. Uno spazio filmico così
strutturato, insomma, rende consapevole lo spettatore di essere un fruitore
consapevole di ciò che sta guardando.
-Dettaglio filmico-
Queste scelte stilistiche servono ai due
cineasti per evidenziare, appunto, il legame di “vicinanza/lontananza” che le
pellicole possiedono con il reale oggettivo. Oltre al montaggio, tecnica
principe dell’arte cinematografica, dunque, esistono altri modi per far
emergere la distinzione dell’immagine filmica dalle sue fondamenta reali, tra
cui proprio la struttura dello spazio e il “dettaglio filmico”.
I primi piani di Jeunet, infatti, “bucano”
lo schermo non solo per coinvolgere gli spettatori, ma anche e soprattutto per
portare il diegetico nell’extradiegetico. Amélie, proprio nel film più noto del
regista francese, si siede fra il pubblico in una sala cinematografica; guarda
in macchina nei momenti topici della narrazione, quasi a ringraziare il
pubblico per il lavoro svolto nella costruzione del suo gioco dell’oca. I
dettagli in primo piano in Le fabuleux
destin d’Amélie Poulain, inoltre, permettono allo spettatore di entrare in
intimità non solo con la protagonista, ma anche con i piccoli piaceri di ogni
personaggio legati a delle azioni o a degli oggetti.
Wes Anderson opta, invece, per un
arricchimento spaziale di oggetti che, nonostante possano sembrare inutili o
semplici riempimenti decorativi, ad una più attenta analisi risultano essere
dei veri e propri nodi informativi sia a livello narrativo sia estetico.
Infatti essi, per poter essere colti dal pubblico, richiedono numerose visioni
anche della stessa pellicola. Il caso di The
Royal Tenenbaums è in tal senso esemplare. Qui Anderson propone una vera e
propria descrizione visiva di ogni singolo membro della famiglia Tenenbaums.
Ogni inquadratura, vero e proprio quadro esplicativo, racchiude in sé numerosi
dettagli, non in primo o primissimo piano, ma anche in secondo piano o sullo
sfondo, relativi ai vari personaggi che si succedono. Dettagli che, ad una
prima visione, non risultano essere gli oggetti della nostra attenzione, ma che,
dopo aver visto la pellicola, rientrano in un preciso schema maniacale, uno
studio attento dello spazio e dei rapporti che gli oggetti dei personaggi hanno
con esso.
-The Truman Show e lo spettatore- Un caso particolare del rapporto che intercorre fra la realtà e la finzione filmica, chiarificatore di quanto detto, è la pellicola di Peter Weir The Truman Show. Essa mette in mostra, in una finzione dunque, il rapporto che intercorre fra il reale quotidiano e l’immagine filmica. In altre parole, il film con protagonista Jim Carrey, non è altro che una riproposizione in immagini di questo rapporto; come tale, quello che dovrebbe essere il reale oggettivo è immagine-movimento. In particolare, la realtà quotidiana è espressa nel filmico a livello di profilmico e di “dettaglio fortuito”. Lo spettatore vede sullo schermo ciò che si dovrebbe vedere quando vengono effettuate le riprese ordinarie. Insomma, diventa filmico ciò che in realtà è solitamente considerato la sua base: il profilmico, ovvero il set dello show e i “dettagli fortuiti” o meno che entrano nella finzione (il famoso spot che cade sul set e che funge da “stella” per Truman). Queste pellicole, di Jeunet e di Anderson, ma anche quest’ultima di Weir, pongono l’attenzione sulla capacità creativa dell’arte cinematografica, senza mai camuffarla dietro la narrazione, quanto, piuttosto, facendola correre in parallelo ad essa. I loro film fanno oscillare continuamente lo spettatore fra il distacco e il successivo coinvolgimento emotivo della narrazione. Si tratta di uno spettatore estetico perché, seppur in alcuni momenti si rende conto di non essere partecipe di ciò che osserva, ma distaccato, a galla, nell’istante subito successivo ha la possibilità, e il desiderio se il film piace, di rituffarsi al suo interno perdendosi nell’emozione cinematografica. I film di Jeunet e Anderson, grazie allo spazio e al dettaglio filmico, rendono possibile proprio tale oscillazione.
Mattia Giannone






