ThaumaEdizioni, 2012
10 euro
Nairobi, capitale degli stupri
Padre assente e giustificato
retrospettiva di un senso
andato a rifugiarsi
dietro lo spiraglio
dal quale
migliaia di bambini ci guardano,
la fame morde le mani
le infermiere
rabboccano di bugie
il latte dei neonati
la malattia
rivolta la sporcizia
dei corridoi
dove si muore ricordando
il sesso in tiro
sull’addome dei soldati
e noi spose bambine
con tutta l’infanzia andata
nell’emorragia durante il parto.
Ponte vecchio di Novi Sad
Quando passa sopra il ponte
sente nella pancia
un vuoto
annodato come la carta
che sembra caramella
ma nasconde un masso.
Quando passa sopra il ponte
annusando tra il fogliame
l’odore di corteccia e tabacco
nel fiume
intravede gli occhi buoni
marroni, come cani
di suo padre.
Gerusalemme anno zero
Il Venerdì ebbe inizio
facendo cenno
di piantarne il corpo sul Monte.
Uscirono di casa
per vedere
come fosse il sangue
di uno che fa miracoli.
Portarono anche figli e moglie.
Il ghigno copulava
con l’insolenza di Caino.
E fu un commercio senza utile
legato da un filo come vertebre
stazioni di un Cristo scalzo,
oberato di pregiudizio.
per cui
tra il tintinnio dei denari
la testa quadrata del chiodo
affondò in tre dita di carne.
Perché l’unico abisso
dove ricacciare quella follia
fu la follia stessa della mano
che impugnata la rotta
ne trafisse il costato.
Dunque preghiamo
richiedendo la dovuta sostituzione
di quella degenerazione.
Per le sferzate, i tagli sulla pelle
il disordine da macello
e l’ingordo piovasco di sangue
che ne disfò la carne a brandelli,
preghiamo.
Accanirsi a quel modo
con l’orgoglio
di aver ritagliato nel corpo di mio Figlio
un bersaglio.
Con colpi assommati a colpi
nella matassa di quel massacro.
Preghiamo
per chi applaudì
quando lo sguardo
ricadde esausto
credendo
che uccidere il nostro Rabbi
fosse già di per sé
un miracolo.
Per il sangue
e la porzione di quel calice
che ne raccolse la consolazione.
Preghiamo
per Chi sconfitto nella carne
coi fianchi nudi
lungo la trave
posò tra l’antro delle spalle
le fondamenta dell’altare.
E ammiriamo
cosa può dunque un corpo.
E come nonostante i chiodi
si sostiene la Sua voce.
Da la postfazione di Gian Ruggero Manzoni
Questa raccolta di Sebastiano Adernò è una risposta forte e civile all’enorme quantità di dolore che ho visto nella mia esistenza, quale poeta ma, soprattutto, quale militare (ora ex) in zone di combattimento (anche da Adernò ricordate). Ormai è più che evidente che il problema “del male di vita” non lo si può risolvere a livello puramente intellettuale, perché sia l’irrazionale sia la carne vengono coinvolti, lanciando il loro grido, dimenandosi, creando forme, ulcerazioni, visioni, oppure impalpabili spettri (… le presenze peggiori).
[...]
Il poeta è quell’uomo che raccoglie in sé tutti gli uomini (tutti i punti) e se ne fa carico (e dico questo senza alcuna retorica), è quell’uomo che ha stretto alleanza con loro, è quell’uomo che di loro si preoccupa, è quell’uomo che li vive e da loro si fa vivere, consapevole che «i confini dell’anima sono irraggiungibili, per quanto si trovino nelle più estreme profondità del singolo, come nelle
più alte vette della moltitudine» (Eraclito), e Sebastiano Adernò sa bene questo, ma di ciò non si vanta, altro non fa che sottostare a un compito, e tracciare tangenze e diagonali.
Perciò “in luogo dei punti”, un contatto.
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