Poesia & Scarabocchi
Emily Dickinson & Giacomo Leopardi
F720 (1863) / J695 (1863)
As if the Sea should part
And show a further Sea -
And that – a further – and the Three
But a Presumption be -
Of Periods of Seas -
Unvisited of Shores -
Themselves the Verge of Seas to be -
Eternity – is Those -
Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, e i tre
solo un presagio fossero
d’un infinito di mari
non visitati da rive -
il mare stesso al mare fosse riva-
questo è l’Eternità.
EMILY DICKINSON, Poesie; traduzione di Margherita Guidacci, Corriere della Sera, Milano, 2004
commento di Giuseppe Ierolli: http://www.emilydickinson.it/index.html
“Emily Dickinson cerca di rendere concreta l’eternità, di darne una definizione che riesca quasi a farcela vedere. Prende il mare, un qualcosa che già al nostro occhio limitato ha un qualche carattere infinito, e lo scompone, lo apre quasi fosse una matrioska, facendone emergere ogni volta un altro e un altro ancora, e dando a questi mari una caratteristica che ne accentua l’infinità: sono privi di rive, perché sono loro il limite di se stessi e, come l’eternità, la loro esistenza basta a se stessa.”
La scelta di ED di definire un concetto temporale (l’eternità) con un’immagine spaziale (il mare) mi ha fatto venire in mente un operazione analoga che avviene in Leopardi focalizzandosi però sul concetto di infinito.
« Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. »
“L’infinito di cui parla Giacomo Leopardi all’inizio della poesia, è un infinito potenziale spaziale. Nella parte finale della breve composizione dallo spazio potenzialmente infinito, che nessuna “siepe” chiude (se non allo sguardo), Leopardi passa alla riflessione sul tempo potenzialmente infinito, del quale non si riesce a pensare un’ultima “stagione”.
La poesia di Leopardi è del 1820. Nel New England del 1863, a una distanza temporale di più di quarant’anni e spaziale di qualche migliaio di chilometri, si incontrano i “mari senza rive” con gli “interminati spazi” dell’eterno.”